PROGETTO ELP
GENOVA, AL FESTIVAL DI AKROPOLIS, IL TEATRO DEL TEMPO SOSPESO
Walter Porcedda - 19 novembre 2022 glistatigenerali.com
[ ... ] C’è chi, altrettanto in modo radicale, ma sul territorio della danza, continua a disegnare percorsi avanzati di ricerca, giungendo a momenti di sperimentazione tanto raffinata quanto estrema. E’ il caso di Paola Bianchi, danzatrice e coreografa di talento che in modo solitario lavora da tempo a una ridefinizione puntigliosa dei rapporti coreografici tra spazio e corpo. Un corpo sempre più territorio privilegiato per questa artista che ha portato all’affinamento un “metodo che _ scrive la stessa Bianchi _ prevede “l’eliminazione del mio corpo di coreografa, come modello da seguire ed imitare” e ciò avviene attraverso la trasmissione via audio di archivi di posture generati da immagini incarnate precedentemente nel mio corpo”. Ciò è avvenuto negli anni addietro con il progetto “ELP” dove Bianchi, a partire dal 2018, ha dato vita con certosina diligenza alla definizione di una banca dati di memoria visiva coinvolgendo decine e decine di persone. Inizialmente sono immagini che si sono fermate nella retina di uomini e donne, diventati poi elementi di postura e coreografia che Paola Bianchi ha via via tradotto in archivi audio. Sono diventate queste, poi, delle tracce audio utilizzate la prima volta nello spettacolo “Other OtherNess” dove la coreografa ha consegnato alla danzatrice Barbara Carulli le tracce in cui veniva descritta la postura da utilizzare volta per volta fino alla composizione di una partitura. In “Assimilia”, lo spettacolo che Paola Bianchi ha portato in scena a Genova si va oltre. La danzatrice infatti indossa un paio di cuffiette da dove arrivano gli ordini delle posture. In pratica si danza al buio senza una linea coreografica. Che vuol dire anche assenza di visione dello spazio. Si sa dove si comincia ma non dove navigherà il corpo.
Paola Bianchi, per l’occasione indossa un ardito ed elegante abito lungo e nero (disegnato e cucito da lei stessa) che sembra una veste presa in prestito a un samurai. Inizia la danza a contatto con il terreno descrivendo volute e spostamenti alla cieca e in diagonale. Non avrà una coreografia da seguire, ma quel suo muoversi è comunque più forte di ogni aspettativa.Trasmette energia e forza. I movimenti spesso improvvisi cancellano gli sviluppi dell’azione precedente per metter in pista qualcosa di inedito. E imprevisto. E’ un danzare alla cieca che sottende furia, voglia di rompere gli argini e sovvertire l’ordine. La segue, quasi con discrezione la colonna sonora del giovane compositore Stefano Murgia, un impasto di suoni elettronici non invasivi, quasi un commento sotto pelle per una danza che d’improvviso apre spazi inattesi, oppure spezza il ritmo di un movimento congelandolo per una manciata di secondi. Una danza in solitario che cita quella dell’uomo contemporaneo sempre più solo davanti al pericolo di una catastrofe imminente. Bianchi danza comunque con rabbia, eppure il suo corpo esprime armonia mostrando sempre una presenza autorevole e intrigante, fatta di eros e teatralità non comuni, in grado ogni volta di provocare passione e commuovere.
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ASSIMILIA. Dal dispositivo ELP di Paola Bianchi una nuova fase di indagine per corpi nel presente
ASSIMILIA è l’ultimo lavoro del complesso progetto ELP al quale Paola Bianchi lavora dal 2018 e che porta avanti le istanze di quella ricerca coreografica incentrata sul corpo politico, emergenza di pratica artistica e di vita espressa nella radicale scelta di indipendenza artistica e prassi creativa, di cui è possibile coglierne livelli e seguirne gli sviluppi nel volume Paola Bianchi Corpo politico. Distopia del gesto, utopia del movimento a cura di S. Bottiroli e S. Parlagreco, Editoria&Spettacolo, Spoleto 2014 e nel blog http://paolabianchi-it.blogspot.com/
Nel caso di ELP il movente di fondo può essere rintracciato già nello sviluppo del titolo visto che ELP è l’acronimo di Ethos Logos e Pathos e che, se non viene male interpretata la poetica di Bianchi, rimanda prima di tutto e sempre a una presa di posizione sull’essere artista come scelta umana, di relazione e politica. Un modo di essere che si pone sullo sfondo del rapporto tra individuo e società, relazione tra nuda vita, singolarità, pathos, forza emotiva – che si esprime nel corpo – e comunicazione, sociale, norma, ethos, logos, linguaggio.
I livelli dell’esperienza su cui si interroga Paola Bianchi sono da sempre quelli dei confini entro i quali la libertà del corpo si può esprimere – di cui la danza è sì veicolo privilegiato d’indagine ma che riguarda tutte e tutti come fatto biopolitico – e per questo il suo campo di riflessione comprende sia le dimensioni fisiche (lo spazio), sia quelle simboliche che riguardano prima di tutto le forme del potere.
Ma dire centralità del corpo – e corpo politico che, vale la pena ribadirlo, è parola chiave del progetto artistico di Paola Bianchi – significa anche porre un’attenzione problematica alla relazione del corpo con il linguaggio e con i linguaggi.
In linea con quel tipo di sensibilità che intorno agli anni Novanta ha consolidato il campo degli studi sulla cultura visuale e che ha prodotto una svolta decisiva nell’identificare i territori dell’immagine e degli immaginari come contesti significativi dell’esperienza, il progetto ELP lavora sul piano di un primo innesco – trigger – drammaturgico sulla raccolta di immagini provenienti da un gruppo di persone invitate a condividere la propria “memoria retinica” (la sociologia visuale chiamerebbe questo processo di raccolta: native image making) così da costruire un repertorio iconografico e iconico condiviso, cioè basato su immagini appartenenti all’immaginario collettivo (in una prima fase occidentale ma successivamente esteso ad alcune persone con background migratorio che vivono in Italia).
Attraverso l’approfondimento dell’analisi – passato soprattutto ma non soltanto attraverso lo scavo analitico di Georges Didi-Huberman e degli studi su Bacon (altra “storica” fonte di indagine di Paola) di Gilles Deleuze – le immagini ricevute sono state elaborate o meglio tradotte nelle posture/figure su cui sono composte le partiture coreografiche.
Non, dunque, rappresentazione didascalica e riconoscibile delle icone del nostro tempo – che restano deposito simbolico non verbalizzabile benché comunicabile – ma piuttosto segni, frammenti posturali, movimenti del corpo, figure appunto che diventano per Paola un pretesto per una sfida politica potente all’autorialità coreografica intesa come processo di trasmissione per imitazione. Cerchiamo di capire come.
A partire dal primo solo ENERGHEIA, costruito attraverso le figure emergenti dall’immaginario occidentale, e successivamente dal solo O_N – elaborato a sua volta dalla traduzione delle immagini non occidentali – passando attraverso i laboratori ESTI, con non professionisti, Paola Bianchi ha messo a punto il processo di trasmissione coreografica basato sulla creazione di archivi di posture descritte verbalmente, registrate e consegnate in file audio a danzatrici e danzatori da cui sono nati lo spettacolo collettivo EKPHRASIS e il solo con Barbara Carulli Other OtherNess. Si tratta di due lavori particolarmente potenti, frutto del lavoro e della relazione fra il processo di incarnazione della parola descrittiva (la coreografia) da parte delle/dei performer e il lavoro in sala con la coreografa, fra enazione, cioè della produzione autonoma del proprio movimento, e co-enazione, cioè dello scambio, confronto relazione durante le prove.
Tutto questo per dire che sia nei laboratori, sia nella realizzazione degli spettacoli – così come nelle altre fasi del progetto, anche in quelle ancora in lavorazione su cui si avrà modo di tornare – la trasmissione riguarda il segnale-parola che diventa informazione solo nel momento in cui viene incarnato da chi lo esegue. Su questa base, quello che va tenuto bene presente, è che il principio creativo, l’idea coreografica, il progetto artistico dell’autrice che l’ha costruito non è espunto. Paola Bianchi non si sottrae dalla sua creazione coreografica. Il processo è più radicale: la parola coreografica che si va a incarnare diventa di chi la esegue il che vuol dire rinunciare all’imitazione del corpo del maestro, vuol dire rinunciare alla logica della trasmissione del sapere come principio gerarchico, spesso confuso con la complementarità che invece va mantenuta. Non dunque negazione dell’autorialità, delle distinzioni interne, delle complementarità, delle differenze ma della gerarchia del potere.
Il lavoro sulla parola, la traduzione dell’immagine in parola, è poi particolarmente interessante perché rimanda al dibattito che anima ancora la legittimità scientifica delle immagini e il paradosso iconoclastico dell’Occidente, e probabilmente non solo. Tanto che sono molti e diversi gli immaginari che un lavoro come ELP intercetta, come si diceva, trovando spazio anche nelle immagini che hanno portato alla fase intitolata CORPI DELLA PROTESTA e alla realizzazione della durational performance NoPolis.
Ed è nel contesto di ricerca che origina e procede nella connessione fra corpo, potere e linguaggio per indagare un proprio modo di «stare e agire nel mondo» indistinto da un proprio «essere nella scena» che si è innestata la pandemia – con il suo portato di criticità – per “costringere” verso un ulteriore livello di indagine la poetica del corpo da cui nasce il nuovo solo ASSIMILIA.
Concentrato nel presente ASSIMILIA lavora sul senso di quelle cose simili che ci tengono insieme fra libertà e costrizione.
Un corpo che non è più libero di muoversi nello spazio [e mentre noi lo sperimentiamo per questioni legate alla salute pubblica politicamente gestite maldestramente, intorno a noi le tragedie dei corpi si consumano senza che si levino grandi proteste per la libertà mi pare] – in ASSIMILIA è di nuovo quello di Paola Bianchi che esegue gli archivi di posture ottenuti attraverso la registrazione della descrizione delle immagini ascoltandole ogni volta dagli auricolari indossati in scena e che sente solo lei mentre si muove dentro uno spazio-scatola-laboratorio costruito dalle luci di Paolo Pollo Rodighiero e dallo straniante ambiente sonoro di Stefano Murgia costretta da una gonna lunga e pesante.
L’impalcatura visiva che compone la drammaturgia della messa in scena è un aspetto saliente del lavoro di Bianchi che cura personalmente il design e la realizzazione del costume di scena. Il pesante tessuto della gonna lunga, che la trattiene e rende più faticosi i movimenti, diventa parte della coreografia, dimensione iconografica, drappeggio statuario, ostacolo sempre superato da una gamba, da un piede, fino a quando viene sollevata e agganciata in vita per lasciare finalmente scorrere meglio il movimento.
Su un impianto coreografico mirabile – dove l’esperienza di danzatrice di Paola Bianchi e la consapevolezza del suo gesto raggiungono picchi elevatissimi – ASSIMILIA aggiunge un ulteriore tassello alla dimensione drammaturgica di ELP e alla messa a punto del dispositivo di ricerca sulla trasmissione. Infatti, se dal lato più riflessivo, il lavoro ci parla del processo dell’etero-direzione, che per le teorie dell’informazione è anche la strategia più efficace della trasmissione, lo spettacolo ci dice anche qualcos’altro.
Attraverso l’auto-esposizione alla parola descrittiva della coreografia l’attenzione si sposta verso la consapevolezza dell’etero-direzione ma anche, e dal punto di vista del meccanismo creativo, al processo di auto-etero-direzione che è la condizione paradossale e particolarmente interessante che scopriamo quando verso la fine sentiamo la voce di Paola che le indica i movimenti da eseguire. Il disvelamento del dispositivo diventa così un ulteriore elemento con cui Paola Bianchi mantiene il patto spettatoriale, ovvero la proposta di una relazione con il pubblico che non è mai scontata, didascalica e che non accetta la finzione come formula narrativa.
OTHER OTHERNESS
Lucia Medri - dicembre 2021 -
Cordelia teatroecritica.net
Il progetto ELP | altre memorie con il quale Paola Bianchi ha vinto nel 2020 il Premio Rete Critica trova una parziale – rispetto alla totalità – incorporazione in Other OtherNess creazione danzata dalla giovane Barbara Carulli, andata in scena durante Teatri di Vetro. Nello spazio buio, le luci di Rodighiero fendono la penombra in tagli obliqui, tra i quali si muove la nuvola ramata del tutù indossato da Carulli, unica veste oltre il copripetto color carne. La fisicità esile ma vigorosa della danzatrice, che già possiede nonostante la giovane età una propria caratura interpretativa, meccanicamente sedimenta le sequenze delle posture collettive trasmesse via audio da Bianchi. Vi è un incontro di frequenze, sonore (musiche originali di Fabrizio Modonese Palumbo) e corporee, sintetizzate in una sequenza di movimenti “alternati”, allo stesso tempo sghembi e armonici, contorti e distesi, rigidi e scomposti, impressionabili nella memoria individuale come una successione di fotografie, a ricordare tutte le immagini, storiche, fissate nella memoria di coloro che – nelle prime fasi di ricerca di ELP – erano stati chiamati a partecipare alla raccolta dell’«archivio di corpi». Quell’”altra alterità” del titolo diventa diapositiva del dialogo che ha legato entrambe nel processo, costruito attraverso la trasmissione di archivi di posture da parte della coreografa all’interprete e concentrato sulla «dichiarazione di esistenza» del corpo e non sull’imitazione di un insegnamento.
Visto a Teatro India, Roma – Crediti: Concept e coreografia Paola Bianchi; creato e danzato da Barbara Carulli; musiche originali Fabrizio Modonese Palumbo; disegno luci Paolo Pollo Rodighiero
BIANCHI, D’INTINO, DAS DING: TRE CRONACHE DI DANZA DA TEATRI DI VETRO
[ … ] uno spazio doppiamente delimitato, doppiamente disegnato al di là del mondo reale: è quello di “Other Otherness” di Paola Bianchi, in scena Barbara Carulli.
Il progetto, nato per la scorsa edizione del festival, è ora in scena in una sala già immersa nel buio all’ingresso del pubblico, il palco bagnato dalle luci “parlanti”, millimetriche, squisite di Paolo Pollo Rodighiero, disposte sulle americane con poetica libertà, verdi per la superficie del palco, ma dettagliatamente color carne, la stessa carne del busto nudo di Carulli, del suo tutù di tulle, e sorprendenti in una doppia batteria di Domino a terra, squintate e contrastanti.
Doppiamente disegnato, si diceva: perché sul palco è segnato un quadrilatero irregolare, dal quale la danzatrice non uscirà mai.
Sotto un suono indistinto, un cupo avvolgersi di qualcosa su sé stessa, Carulli cade, si rialza, vortica, cade, ricomincia, con una levità che non sa di pena corporale, ma quasi di condanna ultraterrena – non c’è dolore fisico, c’è solo un tempo imprecisato, forse infinito, da passare in questo tormento, in questo corpo che, come si vedrà, sembra il vero terreno della contesa.Il tormento di un’anima prigioniera: questa è l’idea che si fa strada nell’occhio dello spettatore, puntato verso la condanna nel quadrilatero, ma soprattutto sulla qualità del gesto della danzatrice che, seppur informata solo attraverso indicazioni verbali dalla coreografa (nel solco della sua lunga ricerca sulla parola per la danza, sulla sottrazione del corpo del maestro per il danzatore), è segnata dallo stigma del raccogliersi e scattare, dello scrollarsi di dosso una tensione, una linea di movimento, attraverso improvvise rivoluzioni di verso. Quel movimento che tante volte abbiamo conosciuto incorporato proprio in Paola Bianchi.
Mentre le luci hanno continue, ammalianti mutazioni, che riescono a rendere avvertibile la doppia natura di spazio e corpo, quest’ultimo subisce la tentazione dell’uscita dal quadrilatero attraverso continui passaggi tra concavità e convessità, tra lo spingere il movimento e l’esserne tirato, tra il richiamarlo a sé e l’esserne respinto, e poi a tradimento posseduto, in una lotta straziante ma condotta con la levità di un duello in punta di fioretto.
Ora uno stretto spiraglio di luce si sostituisce al quadrilatero, e l’esistenza del corpo e del movimento è nuovamente ridotta, limitata a quella porzione di palco, senza forzature nella partitura gestuale, con una semplice – ma non per questo meno drammatica – ridefinizione dei dati spaziali. Poi torna ad ampliarsi la luce, e il suono (di Fabrizio Modonese Palumbo) emerge dal fondo del lavoro, facendosi materia, spazializzandosi in un’oscillazione destra-sinistra sempre più evidente, così come si concretizza la sua natura segmentandosi, facendosi grana sempre più agglomerata, fino a sembrare veramente come un rombo di motore, ora di qua, ora di là, ora di qua – buio.
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Testimonianze ricerca azioni 2021: essere e (è) divenire
[ … ] In Other Otherness Barbara Carulli danza una richiesta di aiuto e di ascolto, prima di tutto a sé stessa, per la sua fragilità ribelle. È un animale ferito che non si arrende, che cerca un volo anche senza ali, un piacere troppo a lungo negato.
Costruito sullo spazio furente e instabile de La zattera della Medusa di Théodore Géricault, il solo nasce dalla trasmissione via audio da parte di Paola Bianchi delle descrizioni di alcune posture presenti nel suo O_N, parte del progetto ELP | altre memorie, anch’esso in cartellone al Festival.
Perciò, la costruzione del lavoro ha escluso la presenza in sala prove della coreografa come modello da seguire e imitare. L’obiettivo di una simile trasmissione è trovare il modo di essere in scena, più che fare, o peggio rifare. È la stessa Bianchi a rimarcarlo con forza nel notevole film documentario su di lei e con lei appartenente al ciclo La parte maledetta. Viaggio ai confini del teatro diretto da Tafuri e Beronio e prodotto da Teatro Akropolis e AkropolisLibri (gli altri due realizzati finora sono dedicati a Massimiliano Civica e a Carlo Sini).
Una gonna di tulle, due ginocchiere, una striscia di nastro sui capezzoli, Carulli si rivela un taglio di luce gettato su un viaggio distorto, elettrificato. Ci guarda di traverso e poi si ascolta guardarci, mentre risuona l’incombere come di elicottero sulla sua testa e sulle nostre.
Other Otherness è un raccoglimento a scavarsi dentro, un rannicchiamento che cova una rivolta. E quando esplode, niente si salva dal fuoco liberatorio dello scontro.
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NESSUN AMICO AL TRAMONTO
Viviamo un mondo crepuscolare. Nella guerra tutt’altro che fredda tra passato e futuro ritratta da Christopher Nolan in Tenet, la frase di Walt Whitman torna e ritorna come un preghiera sussurrata nel momento del bisogno. A queste parole si risponde: Nessun amico al tramonto. Due frasi, due parentesi a racchiudere il nostro presente compresso tra uno sciagurato passato e un futuro quanto mai incerto eppur pronto a reclamare a gran voce il diritto di esistere. Due aforismi difficili da ignorare, e pronti a rimbalzare molesti come le palline di Blumfeld.
In questi giorni, nel visionare alcune opere, le due asserzioni mi tornavano alla mente prepotenti come bulletti di quartiere e nel dare ascolto alla loro insistenza, ho cominciato a sospettar una loro fascinante capacità di rappresentare uno stato d’animo sospeso tra il “non più” e il “non ancora” in cui siamo imbrigliati. Il mondo, non solo quello dello spettacolo, vive intrappolato come insetto sulla ragnatela in un limbo tra due universi, un interregno abitato da ombre, fantasmi, luci soffuse, bagliori taglienti. E ora, proprio in questo attimo di fragilità, il teatro ha scoperto di non avere nessun amico al tramonto.
Vorrei quindi parlare di una serie di opere, lavori intensi e sapienti, capaci di sussurrare parole al nostro tempo, nonostante il confinamento digitale per cui non sono nate. Tre lanterne nel buio, tre mormorii raccolti, nel dolore lievi, tre domande tra il “non più” e il “non ancora”.
[ … ] un trittico: ON, Other Otherness, NoPolis di Paola Bianchi. Un segno radicale, un corpo che da sempre viene inteso come politico, orfano oggi di quell’agorà che lo rende tale, obbligato a offrirsi non alla comunità ma alla community. Le tessiture musicali di Fabrizio Modonese Palumbo, tra loop morbidi e non ossessivi che ricordano William Basinsky e e flussi di suono duro e rumore bianco alla Fennezs di Hotel Paral.lel, modulano onde diverse di un mare da cui emergono suoni concreti come relitti di un mondo che fu, una musica sempre segno e non un tappeto sonoro, una trama su cui si intreccia il danzare in un unione da cui sorge ed emerge il disegno per l’occhio. Una danza nervosa, faticosa, costretta a terra e circondata dal buio in un cerchio di luce tenue (a volte persino oscurata come in piccola eclissi), o sotto una pioggia leggera e circoscritta di luce, dentro un quadrato con un vago sentore di prigione. L’elevarsi è sforzo mai leggero, è lotta contro ciò che ci rivolge al basso. Il buio non è accogliente ma muro impenetrabile. Tre brevi coreografie in cui i corpi intessono un movimento da cui affiorano altri residui, rovine di un mondo rimasto indietro ma ancora piene di un fascino e di un senso che sembra quasi sfuggirci: un dito medio, un pugno alzato verso il cielo, una ballerina di Degas. Gesti politici, di rivolta, di insulto, culturali, iconici, mai neutri. Hanno la forza disperata dei sopravvissuti.
Tre opere in un mondo crepuscolare, quello che abitiamo senza amici al tramonto e in cui, come in Tenet, lo specchio si è rotto prima dell’incidente. Opere che ci parlano di un mondo trascorso ma presente, come le poesie di Rutilio Namaziano erano un amaro osservare il calar del sole su un impero non più tale ma non pronto a prenderne atto. Non c’era e non c’è ancora un futuro. Dobbiamo farlo emergere, dobbiamo tutti sforzarci di farlo affiorare da una notte avvilente e nebbiosa. Per ora c’è spazio per canti notturni, quelli che si rivolgono agli spiriti e alle ombre, canti di sfida e di lotta. Come Ulisse nell’Ade dobbiamo lottare per tener lontane le teste vuote dei morti facendo avvicinare solo quelli pronti a fornire uno sguardo su un futuro che ancora non è, ma sicuramente sarà se sapremo inventarlo.
"Coprifuoco!" E' nato il teatro digitale
[...] E’ il caso ad esempio di “O_N” della coreografa Paola Bianchi che ha messo in scena come spettacolo in video un potente atto unico dalla trama ben innestata nel flusso di ricerca delle sue opere più recenti, vedi lo straordinario “Energheia” , ancorandolo al progetto ELP (la danzatrice sta lavorando sulla memoria visiva su persone con background migratorio in Italia, come avvenne nel primo step di “Energheia” con cui ha costituito un primo importante archivio “retinico”). Incalzata dai suoni e dalle musiche del musicista creativo, inventore di scenografie sonore, Fabrizio Modenese Palumbo, e dal preciso disegno luci di Paolo Pollo Rodighiero, Bianchi, viene inizialmente incapsulata in uno stretto cono di luce dentro il quale ingaggia una lotta nervosa per varcare l’oscurità. Concentrando le azioni in una gestualità minima fatta di impercettibili scarti emozionali, la performer, ripresa in primissimi piani e campi medio lunghi, alterna tentativi di fuga in avanti a pose plastiche di elegante armonia che un attimo successivo, con un velocissimi strappi, vanno in frantumi. Sono le cento memorie di un corpo le cui invisibili cicatrici riemergono da una lotta aspra, giocata sul filo. Una sfida continua e senza soste con il corpo proteso ad offrire e chiedere amore mentre le braccia si rinchiudono lentamente come petali di un fiore al tramonto. Corpo al suolo che si dibatte in un cerchio, prigioniero come un uccello in gabbia che cerca la fuga. Rabbia, dolore, energia sul punto di deflagrare: e voglia di libertà.
Paola Bianchi, oltre a “O_N” ha portato anche il disegno di “Other OtherNess” primo movimento danzato e restituito in video da Barbara Carulli e l’installazione “NoPolis” spazio visivo e acustico “in cui la polis classicamente definita come sfera politica, perde la sua essenza”: abbigliata di rosso, all’interno di un quadrato, Bianchi entra progressivamente in una dimensione rarefatta, mentre i rumori di traffico urbano vengono sostituiti da una musica ovattata segnata da bassi profondi, in sintonia coi movimenti della danzatrice, un corpo liquido in trance. [...]
O_N DI PAOLA BIANCHI, O CIÒ CHE DIVENTA. APPUNTI MINIMI DI TEATRO RIPRESO
Se il teatro di persona è ora scomparso, dato che impossibile è la comunità dei corpi, perché mai dovrebbe continuare a esistere la critica teatrale nel senso tradizionale di sguardo e analisi?
Certo, la sua crisi non è cosa di oggi. Ma ora, con l’oggetto-spettacolo privato del suo repertorio di significanti e strappato dalla sua teca statutaria, per quanto febbrili e inquieti possano esser stati, ci si trova tra le mani un prodotto che rotola come su un nastro trasportatore. Parte dal complesso laboratorio dell’artista e arriva a quello del comunicatore (una sorta di nuovo
dramaturg, che deciderà in quale forma renderlo fruibile, nel caso odierno si tratta di
Roberta Nicolai, come dicevamo
qui). Passa poi a chi materialmente lo tradurrà nel nuovo linguaggio, video,
streaming (e oggi è
Michele Cinque di Lazy Film con la sua
troupe) e finisce nel luogo-non-luogo impossibile da divinare: la cucina, lo studio, il sedile del passeggero della macchina in movimento di chi lo guarderà.
È anch’esso un laboratorio, per quanto assai sporco, in cui imprevedibili ingredienti si mescolano al materiale in provetta: il suono di un clacson, un figlio che rovescia il piatto della minestra, la batteria che si scarica, lo sguardo del tuo compagno che si annoia, e la colpa è tua.
In quale tra questi laboratori deve porsi il critico?
Abbiamo provato a entrare nel terzo. Nella settimana in cui
Teatri di Vetro 2020 va in
streaming differito su YouTube, il Teatro India è diventato un set – cioè sembra essere tornato a essere fabbrica. Silenzioso il cortile esterno, lunghissimi e deserti i corridoi, ovattate ma febbrili, nelle sale, le parole e i movimenti: fuori la città è contratta in un crampo di traffico ininterrotto; dentro, il corpo di
Paola Bianchi, seduta con la testa nelle ginocchia, è incapsulato in un cono di luce.
Attorno a esso, come attorno a una scultura che gli installatori vadano collocando nella giusta angolazione, occhi attenti, sciamano direttore della fotografia, regista, operatori. Più distaccato, significativamente, il gruppo dei teatranti, e il tavolo della regia audio-luci dal vivo.
Oggi si lavora su “O_N”, uno dei due contributi di Bianchi alla 14^ edizione del festival romano: il suo lungo progetto “ELP” si incontra ora con posture provenienti da culture differenti. La mattina è stato fatto il montaggio vero e proprio (vedi, anche il lessico si sdoppia?, montaggio teatrale, si intende, non montaggio video), i puntamenti; nel pomeriggio, dopo una breve prova tecnica, si gira.
Le camere sono quattro, due fisse, una steadycam e una dall’alto, sull’americana, a piombo nell’occhio di quel cono di luce. (Guarda quel polpaccio nella Canon: c’è più magenta che nella Sony. Abbassalo).
La regia sarà live, niente montaggi in postproduzione, ma un indirizzo di massima occorre darlo.
Ci si chiede: quanto usare la steady, la camera mobile. Il corpo di Bianchi si muoverà nello spazio di un cerchio dal raggio di un paio di metri. La fruizione pensata per il teatro è frontale, ma la coreografia si svolgerà in un quasi costante moto di avvitamento/svitamento su un asse. È possibile restituire questo con una camera fissa? Sì, qualcuno pensa; altri dicono di no, è necessario smuovere il quadro, restituirgli una spettacolarità più evidente, «più interessante», andare sui dettagli, staccarlo con più evidenza dal fondo nero, e quant’è nero il nero di uno schermo, quant’è anzi diversa la nozione di “nero” da quella di “buio”, dove la prima è presenza, la seconda assenza.
La steady deve muoversi, bene, ma lentamente, per carità: che paura che fa l’idea di una vertigine mucciniana!
Questa piccola querelle ci ricorda due problemi: il primo, quello dello spettatore.
Quanto può essere utile la conservazione della staticità della posizione dello spettatore in una traduzione video? Se essa richiede una rimessa in discussione del punto di vista, ciò corrisponde a ritoccare radicalmente lo statuto del ricevente, interviene anche nel messaggio.
Il secondo problema è il ritmo: come mantenere lo stesso ritmo di una coreografia nella sua ripresa? In che modo i movimenti di macchina e gli stacchi da una camera all’altra interferiscono nel dispiegarsi nel tempo della rappresentazione?
“O_N”, poi, non ha un rapporto meramente ritmico con la traccia musicale. Dopo una voce e un breve silenzio, lo spettacolo lavora sopra un suono continuo ma internamente ribattente e saturato, che infine muta in una sorta di gracchio da contatore Geiger.
È una natura di non-scansione che impedisce alla regia di appigliarvisi come a un filo conduttore.
L’audio, poi: i volumi. Se si possono stabilire con precisione e a priori nel caso del live teatrale, come è possibile riportarli ai device di ciascuno spettatore domestico? E, soprattutto, come si può suggerire il rapporto di equilibrio che devono avere nel rapporto con la parte visiva?
Basti pensare al precedente lavoro di Paola Bianchi, “Energheia”, visto a
Teatri di Vetro 2019: sarebbe stato impossibile convogliare lo spaventoso muro sonoro delle chitarre di
Fabrizio Modonese Palumbo, che letteralmente schiacciava lo spettatore.
La questione è sempre la stessa: che si parli di immagine, che si parli di suono, in quali termini è possibile mantenersi al di qua del crinale che separa il teatro dal cinema, i loro due linguaggi, inventare un ibrido valido?
Ma intanto, dopo le brevi sigarette della pausa, la ripresa parte e si ferma; qualcuno canta in una sala attigua; poi passa un motorino incredibilmente vicino (ma dove?), e un nutrito mazzo di chiavi viene inopinatamente manipolato, da qualche parte. Via di nuovo, è quella buona.
Il piccolo corpo di Paola Bianchi esordisce con improvvisa dinamicità sotto il suo cono di luce, quasi facendo dimenticare quel suo segno cinetico tipico, inconfondibile, di vibrazione interna. Ma poi, a un minimo cambio di luce (il cerchio si sfuma) lo riconosciamo: qualcosa che sembra un dissidio tra volontà, forma e direzione rompe il corpo, ne interrompe la continuità…
Qui, proprio qui, occorre fermarsi.
Se lo spettacolo è diventato quest’altra cosa, quest’altro ibrido ancora irrisolto, forse la voce più adatta a renderne conto era quella del racconto. L’analisi deve arrestarsi precisamente alle soglie della fruizione.
Nella vostra cucina, nel vostro salotto, con il brillio del vostro albero di Natale e il TG1 altissimo nell’appartamento dei vicini duri d’orecchio, vedetelo voi.
L’attrito del movimento: Paola Bianchi e Teatro Akropolis [ Ipercorpo #3 ]
Francesco Brusa - 28/09/2020 altrevelocita.it
Non esiste attimo privo di tensione in O_N. Da sotto i capelli che le andranno a coprire il viso per tutta la rappresentazione, Paola Bianchi ci scruta con ancora maggiore determinazione di quella che avrebbe se i suoi occhi fossero invece visibili, non “schermati” dalle ciocche bianche. È come se fossimo portati a far convergere l’intensità che leggiamo nei movimenti del corpo verso lo sguardo della danzatrice, verso una sua “intenzionalità emotiva” che, però, nei fatti non ci è dato di leggere: «Passare dall’informe all’informe» è d’altronde la locuzione che la stessa coreografa e danzatrice torinese (ma attiva in Romagna da decenni) utilizza per sintetizzare la traiettoria del proprio lavoro. Vale a dire: non c’è volontà di lasciare traccia intellegibile, ma solo un passaggio da stato indefinito a un altro stato indefinito, concentrandosi semplicemente sul percorso li collega.
Eppure l’anteprima andata in scena nella terza giornata del festival Ipercorpo, se da una parte non offre alcuna frontalità visiva (non vediamo appunto mai in faccia la danzatrice, che peraltro continua a girare percorrendo un ampio cerchio sulla scena), dall’altra è pur sempre una proposta estremamente rifinita, coerente in se stessa. Possiede una forma, magari non come disegno e volontà drammaturgica che eccede il corpo della performer ma nello sviluppo intrinseco dei suoi movimenti, nella regolare sovrapponibilità di ciascun momento con ciascun altro. O_N, cioè, sembra rispondere a un principio compositivo (che la peculiare poetica di Paola Bianchi cerca di spingere nella carne anziché in un pensiero esterno) ben preciso: la negazione radicale di ogni smussatura o fluidità, per modulare il gesto in una maniera che sia il più possibile “quadrata”, rettilinea. Il corpo della danzatrice si piega e ripiega come fosse un origami, al massimo si “accartoccia” su se stesso ma mai e poi mai si sviluppa entro delle curve o delle traiettorie “dolci”. Tutto è sforzo, sebbene ponderato e omogeneo. O meglio, tutto è “contrasto”, frizione con la gravità, è attrito (concetto quest’ultimo centrale nella pratica della coreografa).
Le uniche due linee circolari sono date da un fascio di luce che, per una breve parte dello spettacolo, disegna appunto un cerchio per terra e dallo spostamento della danzatrice, che si muove in modo circolare come fosse su dei binari. Segni a indicare che, tutto sommato, (r)esistono delle strutture di riferimento, schematismi percettivi: non c’è nessuno sviluppo propriamente narrativo, ma l’orbitare continuo attorno a un centro restituisce comunque l’idea del tempo che passa, di uno sfondo immobile su cui la performance scorre.
Si tratta di una proposta molto articolata al suo interno, estremamente definita e lineare. La performance di Paola Bianchi giunge dal punto iniziale a quello finale come se stessimo attraversando l’ingranaggio di un orologio, che cambia in continuazione la qualità e le caratteristiche del proprio battito ma è che è costante nello scandire un preciso ritmo di progressione. Anche la musica, pur sviluppandosi in un andirivieni di accrescimento e scioglimento della tensione, permane tutto sommato sui medesimi timbri e sulle medesime sonorità, che a tratti sembrano richiamare lo scricchiolio degli arti, l’incrinarsi di oggetti. Siamo dentro territori che la coreografa e danzatrice esplora da tempo: una delle sue pratiche di composizione è, infatti, quella di costringere il proprio corpo con delle fasce di contenimento, in modo da riuscire a lavorare sulla “contro-pressione motoria”, su una qualità del movimento che è innanzitutto scatto, reazione a spinte e influenze che derivano dall’esterno. Non c’è interazione col pubblico, c’è – al contrario – una “calcolata istintualità” che pare riguardare solo ed esclusivamente il soggetto in scena, la sua personale “lotta” di posizionamento nello spazio, la faticosa costruzione di un’identità fisica che sappia prescindere dalle immagini e dalle stratificazioni del corpo.
Quasi non ci fosse soluzione di continuità, dopo lo spettacolo è appunto il corpo di Paola Bianchi e la sua poetica tutta che si traslano in altri formati, che diventano immagini-in-movimento (per utilizzare la definizione di Deleuze del cinema): La parte maledetta è un ciclo di documentari realizzati da Teatro Akropolis e AkropolisLibri, diretti da Clemente Tafuri e David Beronio, in cui la compagnia genovese cerca di porre sotto la particolare lente di osservazione della videocamera altri artisti e artiste con cui sente un’affinità di ricerca. La prima “tappa”, presentata a Ipercorpo, è appunto dedicata al lavoro e alla personalità della coreografa e danzatrice piemontese, al suo percorso artistico e a quanto la sua biografia (o, a un livello forse ancora più profondo, la rielaborazione della biografia in memoria) sia andata a influenzare nel corso del tempo le attitudini e le “inquietudini” in scena. Teatro Akropolis prova a costruire un’intima prossimità con il soggetto della propria esplorazione cinematografica, prossimità tesa a svelarne non tanto le ragioni ultime di alcune scelte artistiche, le progettualità poetiche, quanto piuttosto i compositi e personalissimi contesti in cui tali scelte vengono intraprese. Oltre agli spezzoni tratti da alcuni degli spettacoli della sua lunga carriera, infatti, le inquadrature del primo documentario de La parte maledetta (nella quasi totalità girate all’interno di abitazioni private) sembrano “incastonare” (l’immagine del) volto e (l’immagine del) corpo di Paola Bianchi dentro stanze che sono già ambienti, dentro particolari di paesaggio (un giardino, etc…) che diventano già, in qualche modo, “dimensioni di ispirazione artistica”.
In un certo senso – e forse proprio per “smarcarsi” dal classico meccanismo da documentario giornalistico – la compagnia genovese, invece di raccontare i retroscena di quanto accade sul palco, prova a trasformare quanto è fuori dalla scena in un piccolo avvenimento teatrale anch’esso. O, perlomeno, a metterne in risalto gli elementi di teatralità, per quanto poi il carattere generale del ritratto che ne esce è certamente improntato a una qualità davvero molto intima e per certi versi toccante dello sguardo. Nessuna “morbosità euristica”, nessun marcato intento di “scavo”: piuttosto, un approccio semplice e delicato che si rivela pronto a lasciarsi indirizzare dalle volontà di condivisione del soggetto “intervistato”. Quasi un ri-negoziamento continuo e aperto fra compagnia/regista e attrice/coreografa di come e con quali ritmi dovrà avvenire – dentro alla fantasmagorica simultaneità della celluloide – la trasmutazione della realtà in immagine, del corpo in “sedimento”. A provare a pensarli entro un unico arco percettivo, l’anteprima O_N e il documentario de La parte maledetta compongono – nella terza giornata di Ipercorpo – un dittico dissonante ma complementare, in cui le rigorose spigolosità coreografiche dello spettacolo dal vivo trovano il proprio racconto più smussato e “levigato” su pellicola. Corpo e anti-corpo, dunque: due necessari momenti in cui “avviene” la danza.
Visibile/udibile. La sinestesia del gesto in Paola Bianchi
ELP è il progetto di Paola Bianchi di cui il solo Enérgheia è tappa finale esperita durante la cinquantesima edizione di Santarcangelo Festival. Una riflessione e racconto a quattro mani.
Lucia Medri / Enrico Piergiacomi - 1 agosto 2020 - teatroecritica.net
Oltre che uno scavo sul rapporto tra moto e immagine, quindi un affondo sull’aspetto visibile della danza, il progetto ELP di Paola Bianchi è anche un’indagine sul nesso suono-movimento. Spesso l’elemento sonoro è considerato un accompagnamento all’azione coreografica, o un supporto per la costruzione di un ritmo. La danza non è la sonorità né la musica sul piano sia logico che ontologico, bensì procede parallelamente a queste. Bianchi cerca invece una fusione tra queste due dimensioni, fino a rendere del tutto inscindibili il visibile e l’udibile: il corpo che solletica gli occhi e il suono che stimola l’orecchio. Per chiarire i termini della questione, possiamo ispirarci a ENÉRGHEIA [ unplugged ] studio sull’anatomia e sulla vicinanza dello sguardo, una coreografia di pelle, una poetica del corpo muto. Si tratta di uno degli ultimi lavori di Bianchi, facente parte del macro progetto ELP e forse il più programmatico a livello estetico e concettuale, approdato nel cartellone del cinquantesimo anniversario di Santarcangelo Festival e presentato nel suggestivo Nellospazio, area del Parco Baden Powell. Il termine enérgheia è una parola greca che soprattutto in Aristotele indica l’attività, ossia un movimento dove non si è in grado di distinguere il soggetto e il suo oggetto, il processo e il risultato, il mezzo e il fine. Essa si distingue dall’azione in cui invece queste demarcazioni sono operative. Così, la costruzione di una casa non è un’enérgheia, perché il costruttore è diverso dalla casa, il movimento del costruire non coincide con l’edificio costruito, i mattoni non sono la forma del palazzo. Sono invece attività sia la danza che l’ascolto nelle loro forme più semplici, quasi nude. Da un lato, infatti, il corpo del danzatore e il suo movimento non sono diversi dalla danza, come invece lo sono il costruttore e l’atto del costruire dalla casa costruita. Essi sono insieme la forma e la materia dell’attività coreografica. Dall’altro lato, l’ascolto è un’attività in quanto inizia e termina con l’atto di ascoltare stesso. Quando un suono arriva all’orecchio, esso determina solo un’affezione sonora e non un qualcosa di diverso da questa.
Si potrebbe obiettare che anche la danza e l’ascolto producono qualcosa di diverso da sé: per esempio, un altro movimento, un’emozione, un pensiero. Il punto è però che questi sono effetti indiretti e derivati. Il problema è infatti capire quale sia il fine intrinseco dell’attività considerata. La danza in sé mira solo al movimento organizzato, l’ascolto in sé è finalizzato solo a ricevere i suoni. Se l’una e l’altro determinano un effetto terzo, è perché abbandonano il loro fine intrinseco e si pongono come mezzi per altri fini. Il medesimo discorso vale, del resto, anche per l’azione di costruire. Una bella casa può produrre emozioni e pensieri, ma non diremmo che il fine del costruttore sia emozionare e far pensare. Un progetto edilizio che mirasse a ciò uscirebbe dai confini della tecnica della costruzione
Ora, però, quando danza e suono/ascolto si combinano, accade di solito che venga rotta l’unità tra soggetto e oggetto, tra processo e prodotto. Avviene, infatti, che esse fungano appunto da mezzi per costruire un terzo elemento, in questo caso uno spettacolo. Dall’attività coreografica, dove la danza non produce altro che sé stessa, si passa così all’azione coreografica, in cui la danza agisce in modo simile alla tecnica del costruire: produce una forma attraverso il movimento. Se dal punto di vista estetico la dissociazione non crea alcun problema, anzi può portare a prodotti belli e godibili, essa comporta tuttavia una perdita di purezza. Il movimento coreografico che si fa veicolo di significazione o mezzo formale non è più un movimento puro che trova il fine in se stesso, ma si fa mezzo per altro. Il danzatore si trova come dissociato: non coincide completamente con il movimento e con il ritmo della creazione, ma rappresenta un tramite per una creazione e per un ritmo.
La ricerca coreografica di Paola Bianchi va allora forse verso la ricomposizione di questo infranto. La danza non si lascia più accompagnare dal suono, ma si trasforma in una diretta prosecuzione del suono – per così dire, è l’incarnazione visibile di ciò che in sé sarebbe soltanto udibile. Sempre in Enérgheia, questo discorso in apparenza astratto trova la sua realizzazione concreta. La danza di Bianchi risponde infatti qui direttamente agli stimoli sonori che il compositore Fabrizio Modonese Palumbo esegue dal vivo, rendendo così la sua attività organica alla sonorità e non un mezzo al servizio o che proceda in parallelo. L’esito che ne deriva è il contraltare di quella del danzatore “dissociato” di cui sopra. La danza abbandona ogni pretesa formale e di risultato/prodotto, si fa attività pura che trova in sé sia la fine che l’inizio. Ciò manifesta un insieme di forze che infrangono la barriera che di norma separa il movimento dal suono, la vista dall’udito.
Quella dell’ascolto è una prassi che ha contraddistinto inoltre il rapporto di fiducia e confronto intessuto durante la fase processuale con la curatrice e organizzatrice Roberta Nicolai: «Il progetto ELP, nella sua semplicità, rivela una complessità che necessita cura, confronto assiduo. Ed è seguendo la natura propria del progetto che il binomio vita/teatro ha oscillato tra me e Roberta generando un’altalena di riflessioni, un dialogo continuo a volte ossessivo. Ogni dubbio, ogni pensiero si è ancorato a un movimento di questo oggetto che possiamo definire relazione, un andare e venire del tempo della vita e della scena, del luogo che apre le porte all’essere nella scena».
Paola Bianchi costruisce così, in una parola, una sinestesia: la fusione tra il visibile e l’udibile, tra memoria collettiva del gesto e la sua memoria individuale, incarnando quell’archivio fotografico raccolto al fine di dargli movimento e nuova energia al presente. Che forma ha infatti un suono, e che sonorità ha un movimento? Chi separa i due livelli, non sarà mai in grado di percepirlo. Chi – come Bianchi – tenta di unirli, o almeno di ridurre l’abisso che li separa, raggiunge una condizione in cui i sensi sono massimamente allertati, o meglio sono in attività perfetta. Anche questi sono un soggetto che coincide completamente col loro oggetto.
Santarcangelo Festival – luglio 2020
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Il distanziamento sociale del danzatore
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Anche lo spettacolo di Paola Bianchi NRG, ridefinito appositamente per gli spazi all’aperto della rassegna, è in realtà uno spettacolo di repertorio con il titolo Energheia. E anche questo dialoga con il tema delle relazioni e delle distanze. In questo caso, più dello spettacolo assume peso il processo creativo, durante il quale l’artista ha ricomposto nel proprio corpo le memorie visive di una quarantina di persone coinvolte. Secondo quanto dichiarato: “A ognuno/a ho chiesto quali fossero le immagini pubbliche impresse nella propria retina e che anche dopo molto tempo continuano a essere vive nella memoria visiva. Immagini simbolo legate ad avvenimenti storici e a personaggi che hanno segnato la cultura occidentale”. E così, “Ogni immagine è entrata nel mio corpo deformandolo, modificandone le posture e le tensioni fino a generare nuovi stati del corpo – il mio corpo è diventato archivio esso stesso di quelle immagini”. Il gioco delle distanze innerva profondamente la genesi dello spettacolo: dall’evocazione della memoria individuale alla riproposizione di quelle immagini su un altro corpo. L’archivio di cui parla Bianchi è non solo un archivio di immagini e movimenti, ma anche un archivio di distanze, l’aspirazione a colmare la memoria (e dunque l’assenza) attraverso una proiezione. Che a sua volta arriva al pubblico, ulteriormente “distante”, come in un esercizio platonico sulla realtà e l’idea.
La performer snocciola movimenti nei quali di volta in volta si riconoscono labili appigli a immagini più o meno condivise, o meglio ad atmosfere e umori, con il sostegno dell’incalzante e straniante musica dal vivo di Fabrizio Modonese Palumbo. La vicinanza dello sguardo degli spettatori, disposti a ring attorno alla danzatrice, coglie i dettagli del movimento, e al tempo stesso sancisce un’ulteriore distanza di quei segni dall’esperienza emotiva. Come se NRG dichiarasse l’impossibilità della trasmissione dell’esperienza e l’inevitabilità della sua reinvenzione: dall’esperienza vissuta dal testimone originario si passa a quella assorbita e reinventata da Paola Bianchi nel suo corpo e con il suo corpo (e già questo trasfigura l’originale nel simbolico), e infine si approda a quella percepita dallo spettatore, che segue i movimenti come fossero tracce di una Stele di Rosetta da decifrare ma senza un corrispettivo linguistico sconosciuto. Con tutto il fascino che ne consegue, quello di una danza più misterica che misteriosa, come evocata da un altrove lontanissimo, nel quale il corpo della performer ritorna alla fine, regredendo lentamente mentre i battiti musicali si attenuano cupi e ipnotici molto a lungo, come a chiudere un sogno.
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ELOGIO DEL CAMBIAMENTO, IL CASO MAJAKOVSKIJ E LA DANZA DI PAOLA BIANCHI
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Così, citando solo un esempio della programmazione che, come già sottolineato, è ampia e variegata, la coreografa Paola Bianchi presenta alcuni tasselli del progetto ELP – Ethos, Logos, Pathos, un’indagine sulla trasmissione della danza attraverso la parola descrittiva e, di conseguenza, dei corpi che la agiscono. ELP prende il via da un archivio retinico-mnemonico che la coreografa ha composto con l’aiuto di un gruppo eterogeneo di persone, cui ha chiesto la condivisione di “immagini pubbliche che si sono impresse nella tua retina e che anche dopo molto tempo continuano a essere vive nella tua memoria visiva”. Le posture estrapolate da una selezione di queste immagini vanno a comporre una “coreografia senza corpo”, da ascoltare, incorporare e infine incarnare. L’“audiodramma coreografico” in tal modo sviluppato parte dall’idea che “la danza – nelle parole dell’artista – è come una fotografia, la coreografia è lo sviluppo di questa cosa nello spazio e appartiene a chi la incarna”. La trasmissione della danza attuata con ELP presuppone quindi l’annullamento dell’ego della coreografa, l’esclusione del giudizio, per concentrarsi solo sui processi, unici e personalissimi, con cui il movimento viene incarnato. Con The undanced dance, primo tassello del progetto presentato a TDV, agli spettatori viene offerta la possibilità di sperimentare sulla propria pelle l’azione proposta. Energheia è invece un solo della stessa Paola Bianchi, fulcro del progetto in cui la coreografa per prima si immerge nelle immagini che compongono ELP, rendendole corpo e, così facendo, si trasforma in archivio vivente. Infine, a TDV si assiste al primo studio di Ekhfrasis, spettacolo che debutterà nella prossima edizione del festival di Castiglioncello. Qui l’archivio, sempre tramite la parola descrittiva, che è precisa e concreta, viene consegnato ai corpi di dieci giovani danzatrici e danzatori. Cominciando ancora una volta da un’azione interiore e individuale, il lavoro con i professionisti scava ulteriormente nelle possibilità di incarnazione della danza. I movimenti dettati dall’archivio vengono interpretati personalmente da ogni performer, ma la comunicazione coreografica con gli altri crea una struttura estetica e collettiva, che anche in questa fase embrionale mostra grande potenzialità. La trasmissione passa dall’ascolto della parola ai corpi in scena e tramite questi si propaga nella sala, continuando così a evolversi e incarnarsi nello sguardo e nel corpo degli spettatori.
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Teatrosofia #101. Aristotele e la scena in movimento, in azione, in attività
La scena è vissuta sregolatamente, a volte ignorata nei suoi spazi più scontati e accesa nelle periferie, percorsa con agogiche imperscrutabili e apparentemente aliene allo sviluppo, per accostamenti, che è quasi una suite, un rondò imprevedibile.
I movimenti, agglutinati in significanti di ardua decifrazione, ora spezzati e innaturali, al limite dello spasmo, ora diluiti in lunghi momenti di stasi, di atti scopertamente mimetici (i “passi felini”, il pugno chiuso alzato e il capo curvo), sono imprevedibili, una lontana eco – pur nella loro tensione – di qualcosa di intimo, spaventosamente più forte, occulto, che pare lui guardare noi, non viceversa. Eppure, tutto ciò ha una chiave di lettura in quelle parole che descrivono i movimenti, e che troveranno un ulteriore corpo in cui incarnarsi con “Ekphrasis”.
CORPO, SPAZIO, RELAZIONI: AL FESTIVAL TESTIMONIANZE RICERCA AZIONI DI GENOVA
VERBO PRESENTE
A GENOVA SPACCATA IN DUE IL BARICENTRO DEL TEATRO AKROPOLIS
Walter Porcedda glistatigenerali.com - 26 novembre 2018
OPSÌA
Intervista di Silvia Lecceti UAU Magazine – 22 novembre 2017
D'ANIMANIMALE
Moving Bodies Festival: tra butoh, performance e Catastrofe
11 e 12 novembre appuntamento con le live arts a Torino, dove si è svolto il Moving Bodies Festival
di Tessa Granato Fermata Spettacolo - 23 novembre 2017
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d’animanimale - azione per corpo e voce, di Paola Bianchi e Ivan Fantini, (è) un lavoro teso e tagliente che vede la commistione tra il reading e la danza. Il testo di Ivan Fantini è intriso di parole secche, tese, disaccordi che si scontrano per generare un male di vivere che attanaglia il corpo e le sue espressioni verbali, in contrasto con il suo monotono andamento della voce – forse troppo. Da contraltare il sottofondo sonoro manovrato da Paola Bianchi, che entra successivamente in scena svelando la sua coreografia non rassicurante, manifestazione esteriore di turbamenti e invettive, stati d’agitazione e rifiuto di una perfezione estetica. La sua ricerca sul corpo come bersaglio, preda, attraversamenti di violenti istinti, arriva forte e chiara.
La descrizione è piana. Tautologica. Ricorda le descrizioni delle azioni insensate dei personaggi di Beckett. Molloy più di tutto, quando descrive lo spostamento delle pietre nelle tasche, al fine di pescarne una e succhiarla.
Poi la danzatrice valica lo schermo, viene davanti sullo spazio immediatamente prossimo allo spettatore. Ora la luce è presente, si vede tutto. La voce è scomparsa e prende corpo la musica di Fabrizio Modonese Palumbo. Stazioni di suoni, arcate di ponte che sorreggono e racchiudono lo spazio della danza con la solidità di una cattedrale romanica.
La danza si innerva nello spazio e nella musica. I movimenti sempre sul punto di fallire, soprattutto nello slancio aggraziato delle curve ariose del gesto. A volte è un arrancare per tentativi, cambi di direzione come ripensamenti, a volte fughe da qualcuno o qualcosa. Generazioni dolorose, gravate dal peso, impedite allo slancio verso l’alto. Un cadere in ginocchio, un travagliarsi a gattoni tra un cedimento e un piccolo avanzamento. Lo scorrere delle figure sulla diagonale, bassorilievi che si svolgono sulle linee orizzontali. Tutto è solido, quadrato, stabile nonostante l’incertezza come un destino ineluttabile.
In questa inesorabilità è da ricercarsi forse l’altro riferimento iconografico: Il Trionfo della morte di Brueghel. Quell’essere senza scampo di fronte all’avanzata dell’esercito dei morti che invade la landa desolata e dilaga sulla diagonale. Nessuno scampa, né i re né i cardinali, neppure la filatrice che nulla può opporre per difendere il suo bambino dal dilaniare del cane infernale. Neppure la natura è risparmiata, i morti abbattono anche i tronchi rinsecchiti sullo sfondo. La baia è una serie di colonne di fumo. La battaglia infuria qui e lontano.
Verbo presente è un lavoro che rimane impresso nonostante la rarefazione proprio per l’intensità della lotta, svolta a occhi chiusi, alla ricerca di una precisione sempre sotto assedio, di una stabilità messa in discussione dalla gravità. È un essere presente delle immagini e del corpo, è una dichiarazione di intenti a cui l’immagine deve riuscire a dare corpo al verbo che descrive l’intento e l’azione.
Paola Bianchi mi stupisce sempre. Il suo gesto e la sua danza sanno sempre evocare forze potenti e dirompenti e con una semplicità e povertà francescana. La struttura dei suoi lavori è possente, radicata potentemente alla terra, senza svolazzi inutili, dura come una verità. Il suo stile mi affascina e mi attira forte. Io che sono costantemente attratto dal barocco delle immagini, dalla pienezza degli oggetti, vedo nel nitore dei suoi spazi vuoti uno specchio rivelatore, che mi commuove e mi appassiona ogni volta di più.
ZERO
WITH
23/09/2014
ISTANZE POLITICHE. DANZA CONTEMPORANEA, SPAZI E SPETTATORI IN WITH DI PAOLA BIANCHI COMMUNITY
WITHOUT
Nel capannone 9 delle Fonderie Digitali, Paola Bianchi accoglie il pubblico già immersa nella sua performance, trascinando subito lo spettatore in una dimensione interna, personale che sprona lo sguardo di chi assiste a dialogare intimamente con se stesso.
La potenza visiva ed evocativa del nuovo lavoro della danzatrice e coreografa indipendente, Without, non ha bisogno di sottotitoli se non la citazione di Bertolt Brecht, suggerita dall’artista stessa: Tutti a dire della rabbia del fiume in piena e nessuno della violenza degli argini che lo contengono. Si tratta di una partitura scritta per cinque danzatrici che viene però interpretata soltanto dalla coreografa. Il corpo di Paola Bianchi racconta la situazione di cinque diverse figure, che si muovono senza sovrapporsi, affrontando un argomento molto forte: la collettività individuale.
La prima parte della performance è priva di un sottofondo musicale, solo una voce di donna che diventa sempre più distorta, accompagna la narrazione gestuale dell’artista. Ci si immerge immediatamente nella dimensione creata da Paola Bianchi, fatta di attesa e di aspettative finché la voce non si esaurisce del tutto, lasciando con il fiato sospeso.
I movimenti precisi e studiati di Paola Bianchi sono carichi di emotività. L’espressività dell’interprete è infatti molto forte e marcata, soprattutto in alcuni punti, e riesce perfettamente a catturare e a trascinare lo sguardo, creando immagini offerte allo spettatore: esse suggeriscono sensazioni di angoscia, privazione e impossibilità. L’impatto visivo è quindi forte, anche attraverso la musica che focalizza maggiormente l’attenzione sull’azione svolta e trascina sempre di più in quel vissuto che l’artista racconta con il proprio corpo.
A chiusura la danzatrice si posiziona in un angolo, quasi rannicchiata su se stessa. E’ in perfetta solitudine adesso, lontana dal centro del palco ed è quasi irraggiungibile. La musica termina, le luci si spengono ma sembra ancora di trovarsi nel pieno dell’azione. L’atmosfera creata da Paola Bianchi scivola via lentamente, lasciando lo spettatore a discutere con la propria interiorità.
Without svolge sicuramente un lavoro che va a scavare nel profondo e nell’intimità, catturando e raccontando con grande intuizione il vissuto e le sensazioni di un soggetto all’interno di una collettività.
Chiara Venanzetti, Pensieri di Cartapesta 15/05/2013
DUPLICA
Our shadow
selves are inside us, beside us, and surrounding us. In her thoughtful and
uncanny piece, Bianchi delves into the experience of meeting one’s dark side,
and succumbing to its wisdom. Duplica is a challenging, intelligent work deftly
and deeply considered with the ability to reveal both the blinding light and
infinite darkness inside us all.
DIGIMAG 51 / FEBBRAIO 2010
IL SENSO DEL CORPO ABILE
INTERVISTA A PAOLA BIANCHI
Txt: Massimo Schiavoni / Img: courtesy by Paola Bianchi
Il corpo danzante di Paola Bianchi è tutto, a volte niente, altre volte tutto da scoprire, da “aspettare” e capire fino in fondo. È figura umana ed anatomica, è mente ed introspezione che implode forza ed eleganza, dinamicità nelle emozioni che mette in scena già dagli inizi degli anni Ottanta. Lei che ha viaggiato, ha lottato e si è fermata, ha capito e senza voltarsi ha continuato.
Danza per se stessa, e come lei dice “il teatro è molto poco”. Bisogna essere consapevoli e professionisti per delucidare certe affermazioni, dove oggi nessuno ti regala niente, ed in questo proliferare di Festival ed Eventi contemporanei i veri talenti a volte non sono direttamente proporzionali alle aspettative. Paola si forma come danzatrice presso la scuola Bella Hutter di Torino. Dal 1980 al 1986 lavora nella compagnia di Anna Sagna per poi diventare coreografa indipendente. Nel 1994 costituisce la compagnia Agar che nel 2005 viene trasformata in Associazione Agar.
Nell'intento di promuovere la diffusione della danza e del teatro contemporaneo, cura negli anni la direzione artistica di rassegne, festival e numerosi laboratori di ricerca nonché collabora con diverse personalità autorevoli nel campo delle arti visive come Ivan Fantini, Marzia Migliora, Paul e Menno De Nooijer, Barbara Klein senza dimenticare tutti gli artisti che coinvolge e con i quali si “misura” nelle sue performance. Da Clotilde Clotilde al suo ultimo spettacolo Uno, Paola inizia e concepisce le sue ricerche passando da passioni artistiche personali a romanzi o testi letterari, da processi matematici e simbolici a percorsi intimi e psicologici fino a riflessioni sul corpo e sui movimenti in relazione a frasi che toccano il suo animo, a visioni anatomiche e corporali, carnali e mentali.
Paola esteriorizza e materializza nello stesso tempo la sua immagine che si amplifica essendo di fatto alfabeto corporeo, stadio sensibile e percezione specifica dell’individuo. Nelle sue performance le esperienze si interiorizzano come “coscienza”, imitando forme, posizioni, sequenzializzazioni occupate dal pensiero, dai significati decifrati o da decifrare in ogni caso spettacolari, comunicativi e funzionali.
Il suo corpo abile stimola e centralizza kradie e psiche, essendo centro di riflessività e materializzazione. Lei “possiede se stessa”, riflettendosi così nell’identificazione con l’altro, spettatore o chi sia. Nel corso della visione c’è qualcosa di profondo che è recepito attraverso gli occhi, che è respirato e percepito internamente; nuova immagine del corpo, nuovo senso plastico, nuovo encefalo, nuovo “principio di controllo” dei condotti alfabetici primari.
Performance come spazio mentale, come coscienza privata in uno spazio comune, sede opus est. La sua danza come integrazione neurologica, espressione collettiva, orchestra metrica incantata. Distanza psicosensoriale annullata, mimésis che assicura la continuità del flusso delle emozioni coinvolgenti di Paola Bianchi come fascinazione e seduzione sincinetica e sinestetica del “gioco modulare della danza”. Personalità forte, Paola, in un corpo critico, evidenziata anche dall’intervista dettagliata concessami con grande gentilezza ed intensità.
Massimo Schiavoni: Chi è stata Paola Bianchi e chi è attualmente?
Paola Bianchi: Avevo poco più di vent’anni. uscivo dalla compagnia di Anna Sagna – non potevo più essere solo interprete, dovevo creare e insieme ad Enrica Brizzi fondai la compagnia Gincobiloba. In un piccolo teatro torinese conoscemmo Ermanna Montanari e Marco Martinelli, agli inizi del loro percorso – erano i primi anni 80 – ma già a conoscenza del mondo del teatro. Marco ci spedì una lettera – eravamo nell’epoca avanti internet, anche il fax era raro – con un elenco di nomi e indirizzi di organizzatori. Bussammo a molte porte. Ci fu chi si fece negare pur essendo lì, davanti a noi; chi ci chiese di fare un pezzo, un provino, così, senza costumi, senza luci, scenografie e musica.; chi, come Sandro Pascucci, ci spalancò le porte, ci diede una residenza - anche se allora non si chiamavano così – e ci fece presentare il nostro primo lavoro durante la stagione di inaugurazione del teatro Petrella di Longiano. Ricordo ancora l’odore del Petrella, quell’odore di lavori di restauro appena ultimati. Così iniziarono ad aprirsi delle possibilità, entrammo in contatto con il mondo del teatro di ricerca – così si chiamava – ma poco o niente della danza. Partivamo con la nostra Panda carica di scenografie fino all’inverosimile. Ci fermavamo ai festival chiedendo una stanza, un piccolo spazio per presentare il nostro lavoro e durante i nostri viaggi estivi arrivammo anche a Narni – un festival che non esiste più – diretto con genialità e intuito da Giuseppe Bartolucci (ci manca, anche lui, come altri).
Questi furono gli inizi, più di vent’anni fa. Pensavo si potesse cambiare il mondo, ne ero quasi certa, credo. Quello del teatro era un mondo nuovo, da scoprire, da osservare da un angolo – troppa poca esperienza per sentire la possibilità di partecipare. e quello esterno al teatro mi sembrava ruotasse intorno ad esso. ingenuità dei vent’anni...Non c’erano concorsi o bandi per gli under 35 allora. Questa serie di oscenità iniziarono dopo e io ne sono sempre stata fuori. Ci fu il tempo degli under 25, ma io ne avevo già 27 almeno, poi quello degli under 30 e io li avevo superati da poco. Insomma non sono mai rientrata in un under e ora ne sono contenta. Che stupidaggine! Che modo infantile di considerare l’arte, tenere i giovani dentro un ring, controllarli, dar loro il contentino mentre altri ci speculano sopra, illuderli e abbandonarli non appena avranno superato la soglia dell’under. Poi molte cose cambiarono, nella mia vita (Gincobiloba fu sciolta, fondai Agar e ora lavoro da sola) e nella mia percezione del mondo. Poco per volta mi resi conto che le capacità, la bellezza di un lavoro, la forza di uno spettacolo sono marginali nel mondo del teatro. Mi resi conto che quel mondo era ed è corrotto come quello esterno, che fingiamo di essere una grande famiglia, che tutti sanno tutto di tutti ma nessuno si occupa realmente degli altri. Non cambieremo mai il mondo perchè lo si cambia anche dalle piccole cose, dai comportamenti corretti, dall’onestà quotidiana. Il teatro non è tutto, anzi è molto poco. Il mio essere sempre stata ai margini, nomade di spirito e di fatto mi ha precluso molte possibilità. Ma non mi pento. Ora, superati i quarant’anni cerco di costruire un senso nel luogo in cui vivo, penso e credo nel cambiamento a piccoli passi, nell’avanzamento lento e testardo, nella costruzione quotidiana. L’orizzonte, se pur più ampio, nel mio sguardo si è ristretto.
Massimo Schiavoni: Hai scelto naturalmente di essere te stessa ed hai capito come funziona questo mondo a volte tanto finto da sembrar vero. La tua responsabilità molto rara scaturisce dalla tua passione e dal non apparire o dire di si a tutti i costi ed a tutti i Padroni. Raccontami un felice o amaro aneddoto della Paola Bianchi “ingenua” ed uno della Paola Bianchi giudiziosa e consapevole degli ultimi anni. Rimpiangi di più i tuoi viaggi alla scoperta del “mondo teatro” o le occasioni “perse” dal tuo non essere mai stata vittima di compromessi e rimanere coerente con le tue sensazioni e certezze?
Paola Bianchi: Difficile raccontare senza nominare. Non voglio nominare, sarebbe scorretto. La mia incapacità di fingere che vada tutto bene e di tacere mi hanno spesso penalizzata. Ma non rimpiango, non rinnego. Farei le stesse scelte, direi le stesse cose, criticherei gli stessi comportamenti e modi, mi batterei - come tuttora faccio - contro l’incompetenza e l’approssimazione, due tra i mali più diffusi e gravi del nostro tempo, e ne pagherei le conseguenze. Non credo di essere giudiziosa, sicuramente impulsiva, severa con me stessa e con gli altri. Non posso tacere di fronte alle ingiustizie, alle incapacità dilaganti, specialmente nei posti di potere, e al potere le critiche non piacciono.
Massimo Schiavoni: Facciamo un passo indietro Paola. Più di dieci anni fa il tuo interesse per i quadri dell’artista messicana Frida Kahlo ha ispirato la produzione di uno dei tuoi primi spettacoli, precisamente FK esibendoti in scena insieme a Paola Chiama. In primis ti faccio i complimenti per uno spettacolo adeguato nei tempi, appassionante e coinvolgente al punto giusto. Cosa volevi esibire ed “offrire” in realtà attraverso una sequenza di movimenti e “suoni” vocali quasi vincolati, incapaci di liberarsi da un corpo esternato e poi dato invece per quello che è, per quello che suscita e trasmette fisicamente e sessualmente? La provocazione inevitabile ed orgogliosa dell’artista messicana che relazione ha con la leggerezza e la forza della danza nonché della tua ricerca artistica?
Paola Bianchi: Inizialmente fu la storia della sua vita ad affascinarmi più che i suoi quadri. In seguito capii che non c’era separazione. Nei suoi quadri c’è la sua biografia; l’incidente, il corpo esposto nella sua fragilità, nelle sue ferite più profonde, le operazioni che fu costretta a subire, il desiderio di maternità mai realizzato, i suoi amori, i suoi gesti plateali, il comunismo, l’ironia, la morte. “Dipingo me stessa perché sono sola. Sono il soggetto che conosco meglio.” La sua pittura racconta la storia di un corpo che si esibisce, trasmettendo uno stato di angoscia e di eccitazione. Espone il suo corpo alla maniera di un martire dell’iconografia religiosa cristiana. Nei suoi quadri ci sono i colori, le forme, la realtà del Messico. Visitai il Messico, la sua casa, vidi quei colori, quelle forme. Capii che la morte in Messico è intesa come origine e non come fine. FK nacque dalla fascinazione per quel mondo, per una vita complicata eppure così piena di desideri. Mi interessava andare aldilà del personaggio Frida Kahlo, universalizzare la storia per poi tornarci direttamente. In quel lavoro c’erano le difficoltà, le paure, la forza, la lotta quotidiana di tante persone. A quel tempo in pochi conoscevano Frida Kahlo. Non erano ancora usciti film sulla sua vita, una sola biografia era stata tradotta in italiano. Dovetti documentarmi su testi in spagnolo, in inglese. Non potevo dare per scontato nulla. Lavorai sulla sua storia come se fosse la storia di una donna qualunque, piena di contraddizioni. Misi in scena due donne, due figure opposte. Una era la “possibilità”, la “capacità”, la “dinamicità”, l’altra era costretta nella gabbia della fatica, del peso, dell’impossibilità, della negazione, della menomazione fisica. Ho sempre pensato che dai contrasti, dall’attrito possano nascere emozioni forti. L'incontro tra la danza - sinonimo di forza, potenza muscolare, leggerezza, gesto ampio - e il corpo in costrizione, con difficoltà motorie, l'attrito tra il desiderio di muoversi e l'impossibilità di farlo. Volenti o nolenti fissiamo lo sguardo sui difetti, sulle deformazioni. Passiamo la vita a nascondere queste diversità per passare inosservati o semplicemente perchè è più semplice e rassicurante sentirsi come gli altri. Volevo dare dignità e voce alle diversità. E Frida Kahlo è stata la maestra indiscussa dell’orgoglio della diversità.
Massimo Schiavoni: Come definisci il corpo, il tuo corpo nella performance del 2002 Sinesuide – imposizione verticale? In questo lavoro hai lavorato su un testo, precisamente un romanzo della Darrieussecq. Qual è il tuo rapporto col testo ed in questa creazione trasformativa-trasfigurante con il video e la narrazione sonora? Sei riuscita, a mio parere, a concepire una sorta di installazione umana in divenire collocando azione, video ed opere magistralmente connesse ed empaticamente attuali; duttilità ed agilità, spazialità fredda e ritmo fedele.
Paola Bianchi: Sinesuide – imposizione verticale è nato come parte di uno spettacolo più complesso adius utópia. Il lavoro fu ideato da Ivan Fantini (cuoco e artista di ingredienti con cui ho collaborato in diversi spettacoli) e creato insieme. In particolare io mi occupai della coreografia e dei video, Ivan delle installazioni e della creazione del cibo fruibile da 24 spettatori. Adius utópia partiva da una passione di Ivan per il maiale e da una sua profonda riflessione sullo spreco e sull’assurdo pregiudizio detto schifo nel nostro tempo. Adius utópia metteva in scena il quinto quarto (testa, coda, piedini e tutte le interiora del maiale) detto taglio di bassa macelleria, più economico, in grado di soddisfare le necessità alimentari di chiunque, diventato per la società ad economia avanzata prodotto secondario, favorendo così l’incremento economico dei tagli di prima scelta. Lo scenario del quinto quarto in adius utòpia si intrecciava con il macello umano inteso come spazio asettico, antisettico, claustrofobico, laddove l’umano quotidianamente stenta nel vivere.
E qui entrava in gioco il mio specifico, la ricerca sul corpo. Un lavoro sul dettaglio. Sinesuide – imposizione verticale non è pensato per l’edificio teatro, azione e visione condividono lo stesso spazio. La vicinanza permette di vedere la contrazione dei muscoli, la tensione dei nervi, la vibrazione della pelle. Una coreografia puntuale, minuta, concentrata sul particolare. Dinamicità statica del movimento, costrizione del luogo. La ripresa in dettaglio del video amplia la vicinanza, spingendo la visione quasi all’interno del corpo. Volevo mostrare le interiora attraverso la pelle, la vibrazione dell’interno senza esasperarne la forma. Troismi di Marie Darrieussecq mi ha regalato le immagini necessarie alla trasformazione del corpo da umano a animale, da donna a scrofa. E’ fondante e necessario per la creazione dei miei lavori partire da uno o più testi, da immagini, da materiali visivi, audio. Tutto ciò che immagazzino diventa corpo, trasformazione del corpo, coreografia. Parallelamente alla scrittura coreografica nasce la necessità della parola scritta. Non per spiegare l’azione, ma come mezzo altro per concludere il percorso intrapreso. Così sono le schede di sala che elaboro, evocative piuttosto che esplicative. Così nascono anche i testi che a volte entrano nei miei spettacoli. Un modo per scavare nella stessa direzione ma con un linguaggio e un modo diversi.
Massimo Schiavoni: Dopo la “solitudine” di Kytos e le varie Odissee dell’Immobilità, nel 2006 hai messo in scena in Corpus Hominis, tre danzatori dissociati e celebrati. Come sei riuscita qui a “costruire” il corpo contemporaneo e che definizioni dai a luogo e tempo? È davvero assurda la separazione anima/corpo?
Paola Bianchi: Corpus Hominis segna un passo importante nel mio percorso. Dopo aver interpretato per molto tempo in prima persona i miei spettacoli, sentivo l’urgenza di uscire dalla scena per rientrarci con lo sguardo esterno. Oltre a ciò volevo indagare il corpo maschile dal punto di vista coreografico, sulla scena. Confrontarmi con quel corpo così diverso dal mio, per potenzialità, per forza, per ritmo interno. Corpus Hominis parla di corpi. Sono corpi che subiscono l’azione nel loro agire. Racconta del corpo. Un corpo presentato nella sua interezza, ma nascosto nel suo essere libero. Un corpo sezionato, diviso in organi, medicalizzato, misurato, fotografato, dipinto, educato, omologato, un corpo celebrato nella contemporaneità di un modello mediatico che non ci appartiene realmente, un “corpo docile”, per citare Foucault. Il corpo è una superficie su cui sono iscritti i precetti fondamentali, le gerarchie e persino gli orientamenti metafisici di una cultura, che lo stesso concreto linguaggio del corpo rafforza. Ho scelto corpi maschili per il loro essere rappresentativi dell’essere umano. Li ho scelti perchè vittime di loro stessi, della cultura da loro creata. Non è reminiscenza femminista, è la realtà. Il potere è ancora nelle mani del genere maschile. Credo che chiunque stia in scena debba conoscere a fondo il senso, la motivazione, il perchè più profondo del suo stare lì, davanti a un pubblico. In ogni istante, anche nell’immobilità più totale – anzi proprio nei momenti di immobilità – bisogna continuare a esserci, dentro la scena, credibili, credendoci fino in fondo. A questo servono i lunghi studi che precedono le prove dei miei spettacoli. Ho cercato di fare lo stesso con i tre danzatori di Corpus Hominis. Ho consegnato loro i miei pensieri, i miei dubbi, le mie parole scritte e dette.
Abbiamo visionato materiali video, abbiamo discusso per ore, su tutto, a partire dal cibo che mangiavamo per arrivare al potere, a chiederci che cos’è il potere e come viene esercitato su di noi quotidianamente. Un corpo esaltato e poi svuotato, osannato e ridotto a oggetto, un corpo che non sa più muoversi. E’ stata per certi versi una battaglia, ma non tra me e i tre danzatori, tra noi e noi stessi, il nostro corpo, il nostro essere. Questo è per me Corpus Hominis, questo sono i tre corpi sulla scena. Ma quei tre corpi, per quanto contemporanei, abitavano un luogo e un tempo che non ci appartengono perchè troppo dentro di noi. La scelta dello spazio completamente nero andava aldilà della convenzione dello spazio teatrale. Era nero per scelta. E in molti momenti si è proprio lavorato su questo nero, sul buio, sulla difficoltà di percepire i corpi, a volte evanescenti, a volte persi in una nebbia che elimina i contorni del luogo. Lo spazio di Corpus Hominis è un luogo non luogo, è lo schermo nero su cui chiudiamo gli occhi la sera, è il luogo della raccolta delle immagini, il luogo della memoria. E’ il nero che ci sta intorno, oltre il confine della nostra pelle, il lato oscuro del nostro mondo occidentale fintamente protetto e protettivo. E’ un laboratorio anatomico di vivisezione di corpi, vivi ma spenti. E’ il nero che si equivale al bianco abbacinante. Allo stesso modo il tempo non ha una durata misurabile, una collocazione temporale riconosciuta dal nostro vissuto. E’ un tempo senza tempo, senza ore, ma infinitamente lungo e brevissimo al tempo stesso. Simbolicamente è il percorso educativo e di resa del corpo. “Le vesti cancellano l’indigenza della vita animale, nascondono quegli organi che sono superflui per l’espressione dello spirito e, se non ricoprono la testa, è perché lì è l’espressione spirituale della figura umana.” Ecco, anche intorno e contro questa frase di Hegel, un concetto tutto occidentale e cerebrale - la celebrazione della passività della carne a favore della mente - è nato Corpus Hominis.
Non credo che il luogo dell’anima, della mente sia la testa e che questa sia separata dal resto del corpo. Il cervello si trova nella testa ma questo non significa che il resto sia staccato e dipendente. Il corpo possiede un’intelligenza, una memoria cha va oltre la verbalizzazione. Il dualismo anima/corpo, mente/materia a partire da Platone - corpo come alieno, come non-sé, causa di ogni male - passando per Agostino - corpo come nemico, pesante e grave -, Cartesio - corpo come materia bruta, un corpo concepito dall’intelletto e non vissuto dalla vita, un corpo in idea e non in carne e ossa, un corpo anatomico e non un soggetto di vita – e il cristianesimo – controllare e frenare gli impulsi naturali del corpo -, venne formalizzato definitivamente da Freud. Lakoff dice: la ragione è resa possibile dal corpo, cioè il nucleo del nostro sistema concettuale ha origine nella natura strutturata dell’esperienza corporea. Pensare significa anche avere un corpo in rapporto dinamico con l’ambiente e molte categorie del pensiero sono rappresentazioni mentali di stati della corporeità. E come scrive Umberto Galimberti in “Psiche e techne”: il dualismo anima e corpo è un effetto della riflessione che guarda l’uomo dopo che la sua azione ne ha consentivo la vita. Guardato invece dal punto di vista dell’azione, il dualismo si dissolve perché tutto ciò che viene riferito all’anima, alla cultura, allo spirito, appare già da subito come condizione biologica della vita del corpo, ed è quella attivazione tecnica che consente al corpo di vivere nonostante la sua insufficienza biologica, la sua carenza di specializzazione, la sua mancanza d’ambiente. Ecco, mi sento di condividere in pieno questi pensieri.
Massimo Schiavoni: Per figura sola nasce dalle tue Visioni Irrazionali, dopo aver studiato e riflettuto per anni sui numeri di Fibonacci e la sezione aurea. Spiegami il rapporto fra queste visioni e misure, con la messa in scena della performance. Perché resta on stage una figura sola? Definizione e accettazione anche di una sorta di solitudine indifesa – io penso - di mutazioni rimaste alla gola, di spazio esausto senza essere riempito.
Paola Bianchi: Le Visioni Irrazionali sono state lo studio su scena, l’esposizione pubblica dei pensieri che, invece di riempire unicamente i miei quaderni di appunti, hanno riempito e abitato gli spazi, con libertà di forma. Brevi lavori site specific, dall’installazione alla performance, generalmente nella forma del solo. Indagando sulla serie dei numeri di Fibonacci e sulla sezione aurea siamo andati oltre l’immediatezza del numero e della perfezione. Con i tanti performer che hanno abitato le mie Visioni abbiamo toccato i temi dell’omologazione comportamentale, del controllo costante a cui siamo sottoposti, della catalogazione delle azioni, della solitudine che è condizione prima della sottomissione, del corpo manipolato, costretto, della caducità, della staticità della caduta, dei tentativi di volo, della perfezione e dei suoi opposti, della frantumazione delle immagini, della violazione dell’identità. Questo studio esposto pubblicamente è servito per costruire Per Figura Sola. E mentre pensavo a questo nuovo lavoro ho capito che dovevo lavorare per sottrazione, invece di sommare – come avrebbe fatto Fibonacci. Di quei numeri restano i conti interni alla coreografia. Resta il rettangolo aureo tracciato sul pavimento. Volevo raggiungere l’essenziale, volevo che restasse il senso profondo di quel percorso, che a mio avviso è la solitudine della figura in uno spazio prestabilito, deciso a priori.
Ecco che i segni sul pavimento diventano come il gioco dell’oca. Un percorso obbligato in cui la variazione possibile è solo all’interno della casella, della stazione. Abbiamo lavorato sulla finzione. Sulle trasformazioni, o meglio sui tentativi di trasformazione. Sullo stare sulla scena, sulla solitudine, senza vie di scampo. Abbiamo indagato lo spazio. Uno spazio senza vie di fuga. Uno spazio che non prevede libertà di decisione. Una sorta di campo desolato e desolante, abitato per consuetudine.
Massimo Schiavoni: In Cessione tornano in scena due figure, tu e Valentina Buldrini. Anche qui è il nero a fare da sfondo-protagonista allo spazio vuoto in contrapposizione al rosso. La memoria e l’autobiografia che ruolo giocano in questo “rito liberatorio” dove latrina e gesto convivono in una intimità personale ma anche collettiva?
Paola Bianchi: “Io sono davvero il più grande di tutti perchè posso prendere trecentomila lire per sera e anche mezzo milione e mandare un altro a cantare al posto mio. Tanto chi conosce Piero Ciampi?” Questa frase che nel 1976 Piero Ciampi (grande poeta e cantante livornese poco considerato in vita, ma ritenuto ora, dopo quasi trent’anni dalla sua morte, una pietra miliare della canzone d’autore italiana) disse durante un’intervista, mi ha spinto a pensare al senso del nostro fare e a ciò che il mondo esterno ne percepisce. Al nostro essere riconoscibili o anonimi, a quanto incidiamo nel contemporaneo e all’ironia necessaria per dare un senso al nostro stare. In Cessione le due figure vivono due luoghi separati, diversi e lontani tra loro, sospesi nel nero dello spazio, un nero necessario, fondamentale, scelto. Due piattaforme che galleggiano. Una è il luogo dello scarto, del gesto morto, del pensiero che non ha avuto voce, l’altra è il luogo della memoria, reinterpretata, rivissuta e per questo poco reale. La prima è sospesa in un semicerchio rosso, circoscritta e protetta da una superficie di plastica che ne dissolve i contorni. Una protezione necessaria, l’intimità del luogo non potrebbe farne a meno. Si tratta dello spazio dello scarto. All’interno una latrina, un cesso. All’inizio la figura indossa una parrucca costruita con i nastri di VHS che contengono il girato dei miei vecchi spettacoli, la memoria reale. La parrucca finirà ben presto nel cesso, per diventare memoria di gesti incarnati dall’altra figura che è la vera forza del lavoro. Nei nastri sono incisi gesti che hanno attraversato tutto il corpo, modificandolo, deformandolo.
Lo stesso movimento che dalla testa - luogo dell’immagine - arriva al fondo della schiena per perdersi nel nulla. All’altra figura – ovvero Valentina Buldrini, danzatrice dalle mille potenzialità, un corpo duttile, flessibile, intelligente, la capacità rara di diventare altro – ho voluto affidare il compito di reinterpretare i gesti persi nella memoria degli interpreti e di qualche spettatore attento, a lei ho voluto Cedere quel fardello effimero eppur pesante. Il lavoro del danzatore si perde nell’aria spostata in palcoscenico. Nel sudore, nella fatica. In gesti che hanno creato emozioni, reazioni. A volte fatichiamo a scrollarceli di dosso, quei gesti, a volte li andiamo a ricercare per sentirci noi fino in fondo. Ma quella memoria del corpo resta nel nostro interno, difficile se non impossibile da verbalizzare. Quella memoria muore con la decadenza del nostro corpo. Con l’impossibilità di replicare, di tornare a essere quel movimento perso. Volevo denunciare la mia difficoltà ad accettare l’oblio, manifestare la necessità della memoria, personale, collettiva o storica che sia. Accettandone anche la sua deformazione nell’interpretazione. Ridare vita a immagini morte. Cessione è un testamento, un pezzo di autobiografia a gesti. Il mio stare sulla scena è testimonianza, punto fermo, accettazione della distorsione, de-pensamento dell’immagine, post-mortem in latrina. Cessione è una biografia del vuoto. Ma anche il vuoto è necessario.
Massimo Schiavoni: Paola qual è la vera identità protagonista nella tua ultima creazione Uno e quali sono le aspettative ed i progetti per il futuro?
Paola Bianchi: La vera identità protagonista di Uno è la mancanza di identità. La difficoltà di un’esistenza fasulla. La solitudine infinita che ci vede moltitudine isolata di fronte al nostro personale e privato computer in un rapporto molto speciale con la tastiera e con il mouse. Agamben scrive: ...La nuova identità senza persona fa valere l’illusione non di un’unità, ma di una moltiplicazione infinita delle maschere. Nel punto in cui inchioda l’individuo a un’identità puramente biologica e asociale, essa gli promette di lasciargli assumere in internet tutte le maschere e tutte le seconde e terze vite possibili, nessuna delle quali potrà mai appartenergli in proprio.
Questa non-identità o meglio ancora anidentità, usando l’alfa privativo piuttosto che il prefisso negativo, diventa quindi la vera protagonista. Incapace di trasformarsi realmente, pur cambiandosi di costume, incapace di partecipare fino in fondo all’azione che svolge, incapace di prendere decisioni improvvise, in aritmia atonale, uno stare lì senza essere lì. Movimenti incompiuti, dubbiosi, approssimazione del gesto. Un fare senza senso assoluto, fine al momento dell’azione, all’attimo in cui avviene. Indecifrabilità del segno. Uno scivolamento nel dubbio del fare non definitivo. UNO è un atto senza soluzione, senza partita.
Uno è un pianto, una denuncia di difficoltà, un’incapacità di stare. Eppure in queste mille difficoltà c’è lo spazio per il sorriso, per una vena d’ironia che ho scoperto essere maggiormente apprezzata e compresa nei paesi nordici che qui da noi. In Uno c’è desolazione, disastro annunciato, la scena sporca, errori su errori (dall’uso dello spazio all’uso delle luci, create da Paolo Pollo Rodighiero, il light designer con cui collaboro da moltissimo tempo, un maestro della illuminazione), c’è la decadenza del nostro tempo, della nostra terra, del bel paese. C’è il silenzio imperfetto del nostro tempo. L’analfabetismo estetico del meidinitali. A creare questa desolazione e questa fatica dello stare contribuisce un testo registrato in voce tratto dal libro Italia De Profundis scritto da Giuseppe Genna, uno degli scrittori più interessanti del panorama italiano, che con la sua prosa colta e mai banale devasta i nostri cuori.
Aspettative e progetti per il futuro.... sulle prime taccio. I progetti invece continuano a nascere e si susseguono senza soluzione di continuità. Ora sono concentrata sul nuovo lavoro, UNO, che dopo il debutto al PIM di Milano il 6 febbraio sarà a Vienna per una settimana di repliche, poi a Frosinone, a Castiglioncello, a Bologna e spero non muoia lì...Parallelamente sto lavorando a uno spettacolo per bambini (fascia d’età 3-5 anni). Un lavoro da non trascurare quello con e per l’infanzia, un approccio diverso, più leggero, ma non per questo meno importante. E poi c’è il tentativo di diffondere la cultura della danza contemporanea nel riminese (dove vivo ormai da 8 anni). Un territorio vergine. Un lavoro che sto svolgendo da qualche mese all’interno del collettivo c_a_p."Coprifuoco!" E' nato il teatro digitale
[...] E’ il caso ad esempio di “O_N” della coreografa Paola Bianchi che ha messo in scena come spettacolo in video un potente atto unico dalla trama ben innestata nel flusso di ricerca delle sue opere più recenti, vedi lo straordinario “Energheia” , ancorandolo al progetto ELP (la danzatrice sta lavorando sulla memoria visiva su persone con background migratorio in Italia, come avvenne nel primo step di “Energheia” con cui ha costituito un primo importante archivio “retinico”). Incalzata dai suoni e dalle musiche del musicista creativo, inventore di scenografie sonore, Fabrizio Modenese Palumbo, e dal preciso disegno luci di Paolo Pollo Rodighiero, Bianchi, viene inizialmente incapsulata in uno stretto cono di luce dentro il quale ingaggia una lotta nervosa per varcare l’oscurità. Concentrando le azioni in una gestualità minima fatta di impercettibili scarti emozionali, la performer, ripresa in primissimi piani e campi medio lunghi, alterna tentativi di fuga in avanti a pose plastiche di elegante armonia che un attimo successivo, con un velocissimi strappi, vanno in frantumi. Sono le cento memorie di un corpo le cui invisibili cicatrici riemergono da una lotta aspra, giocata sul filo. Una sfida continua e senza soste con il corpo proteso ad offrire e chiedere amore mentre le braccia si rinchiudono lentamente come petali di un fiore al tramonto. Corpo al suolo che si dibatte in un cerchio, prigioniero come un uccello in gabbia che cerca la fuga. Rabbia, dolore, energia sul punto di deflagrare: e voglia di libertà.
Paola Bianchi, oltre a “O_N” ha portato anche il disegno di “Other OtherNess” primo movimento danzato e restituito in video da Barbara Carulli e l’installazione “NoPolis” spazio visivo e acustico “in cui la polis classicamente definita come sfera politica, perde la sua essenza”: abbigliata di rosso, all’interno di un quadrato, Bianchi entra progressivamente in una dimensione rarefatta, mentre i rumori di traffico urbano vengono sostituiti da una musica ovattata segnata da bassi profondi, in sintonia coi movimenti della danzatrice, un corpo liquido in trance. [...]
O_N DI PAOLA BIANCHI, O CIÒ CHE DIVENTA. APPUNTI MINIMI DI TEATRO RIPRESO
Se il teatro di persona è ora scomparso, dato che impossibile è la comunità dei corpi, perché mai dovrebbe continuare a esistere la critica teatrale nel senso tradizionale di sguardo e analisi?
Certo, la sua crisi non è cosa di oggi. Ma ora, con l’oggetto-spettacolo privato del suo repertorio di significanti e strappato dalla sua teca statutaria, per quanto febbrili e inquieti possano esser stati, ci si trova tra le mani un prodotto che rotola come su un nastro trasportatore. Parte dal complesso laboratorio dell’artista e arriva a quello del comunicatore (una sorta di nuovo
dramaturg, che deciderà in quale forma renderlo fruibile, nel caso odierno si tratta di
Roberta Nicolai, come dicevamo
qui). Passa poi a chi materialmente lo tradurrà nel nuovo linguaggio, video,
streaming (e oggi è
Michele Cinque di Lazy Film con la sua
troupe) e finisce nel luogo-non-luogo impossibile da divinare: la cucina, lo studio, il sedile del passeggero della macchina in movimento di chi lo guarderà.
È anch’esso un laboratorio, per quanto assai sporco, in cui imprevedibili ingredienti si mescolano al materiale in provetta: il suono di un clacson, un figlio che rovescia il piatto della minestra, la batteria che si scarica, lo sguardo del tuo compagno che si annoia, e la colpa è tua.
In quale tra questi laboratori deve porsi il critico?
Abbiamo provato a entrare nel terzo. Nella settimana in cui
Teatri di Vetro 2020 va in
streaming differito su YouTube, il Teatro India è diventato un set – cioè sembra essere tornato a essere fabbrica. Silenzioso il cortile esterno, lunghissimi e deserti i corridoi, ovattate ma febbrili, nelle sale, le parole e i movimenti: fuori la città è contratta in un crampo di traffico ininterrotto; dentro, il corpo di
Paola Bianchi, seduta con la testa nelle ginocchia, è incapsulato in un cono di luce.
Attorno a esso, come attorno a una scultura che gli installatori vadano collocando nella giusta angolazione, occhi attenti, sciamano direttore della fotografia, regista, operatori. Più distaccato, significativamente, il gruppo dei teatranti, e il tavolo della regia audio-luci dal vivo.
Oggi si lavora su “O_N”, uno dei due contributi di Bianchi alla 14^ edizione del festival romano: il suo lungo progetto “ELP” si incontra ora con posture provenienti da culture differenti. La mattina è stato fatto il montaggio vero e proprio (vedi, anche il lessico si sdoppia?, montaggio teatrale, si intende, non montaggio video), i puntamenti; nel pomeriggio, dopo una breve prova tecnica, si gira.
Le camere sono quattro, due fisse, una steadycam e una dall’alto, sull’americana, a piombo nell’occhio di quel cono di luce. (Guarda quel polpaccio nella Canon: c’è più magenta che nella Sony. Abbassalo).
La regia sarà live, niente montaggi in postproduzione, ma un indirizzo di massima occorre darlo.
Ci si chiede: quanto usare la steady, la camera mobile. Il corpo di Bianchi si muoverà nello spazio di un cerchio dal raggio di un paio di metri. La fruizione pensata per il teatro è frontale, ma la coreografia si svolgerà in un quasi costante moto di avvitamento/svitamento su un asse. È possibile restituire questo con una camera fissa? Sì, qualcuno pensa; altri dicono di no, è necessario smuovere il quadro, restituirgli una spettacolarità più evidente, «più interessante», andare sui dettagli, staccarlo con più evidenza dal fondo nero, e quant’è nero il nero di uno schermo, quant’è anzi diversa la nozione di “nero” da quella di “buio”, dove la prima è presenza, la seconda assenza.
La steady deve muoversi, bene, ma lentamente, per carità: che paura che fa l’idea di una vertigine mucciniana!
Questa piccola querelle ci ricorda due problemi: il primo, quello dello spettatore.
Quanto può essere utile la conservazione della staticità della posizione dello spettatore in una traduzione video? Se essa richiede una rimessa in discussione del punto di vista, ciò corrisponde a ritoccare radicalmente lo statuto del ricevente, interviene anche nel messaggio.
Il secondo problema è il ritmo: come mantenere lo stesso ritmo di una coreografia nella sua ripresa? In che modo i movimenti di macchina e gli stacchi da una camera all’altra interferiscono nel dispiegarsi nel tempo della rappresentazione?
“O_N”, poi, non ha un rapporto meramente ritmico con la traccia musicale. Dopo una voce e un breve silenzio, lo spettacolo lavora sopra un suono continuo ma internamente ribattente e saturato, che infine muta in una sorta di gracchio da contatore Geiger.
È una natura di non-scansione che impedisce alla regia di appigliarvisi come a un filo conduttore.
L’audio, poi: i volumi. Se si possono stabilire con precisione e a priori nel caso del live teatrale, come è possibile riportarli ai device di ciascuno spettatore domestico? E, soprattutto, come si può suggerire il rapporto di equilibrio che devono avere nel rapporto con la parte visiva?
Basti pensare al precedente lavoro di Paola Bianchi, “Energheia”, visto a
Teatri di Vetro 2019: sarebbe stato impossibile convogliare lo spaventoso muro sonoro delle chitarre di
Fabrizio Modonese Palumbo, che letteralmente schiacciava lo spettatore.
La questione è sempre la stessa: che si parli di immagine, che si parli di suono, in quali termini è possibile mantenersi al di qua del crinale che separa il teatro dal cinema, i loro due linguaggi, inventare un ibrido valido?
Ma intanto, dopo le brevi sigarette della pausa, la ripresa parte e si ferma; qualcuno canta in una sala attigua; poi passa un motorino incredibilmente vicino (ma dove?), e un nutrito mazzo di chiavi viene inopinatamente manipolato, da qualche parte. Via di nuovo, è quella buona.
Il piccolo corpo di Paola Bianchi esordisce con improvvisa dinamicità sotto il suo cono di luce, quasi facendo dimenticare quel suo segno cinetico tipico, inconfondibile, di vibrazione interna. Ma poi, a un minimo cambio di luce (il cerchio si sfuma) lo riconosciamo: qualcosa che sembra un dissidio tra volontà, forma e direzione rompe il corpo, ne interrompe la continuità…
Qui, proprio qui, occorre fermarsi.
Se lo spettacolo è diventato quest’altra cosa, quest’altro ibrido ancora irrisolto, forse la voce più adatta a renderne conto era quella del racconto. L’analisi deve arrestarsi precisamente alle soglie della fruizione.
Nella vostra cucina, nel vostro salotto, con il brillio del vostro albero di Natale e il TG1 altissimo nell’appartamento dei vicini duri d’orecchio, vedetelo voi.
Lungo due anni, il progetto ELP della coreografa Paola Bianchi si è nutrito di molteplici fasi e aperture, ognuna diversa e complementare alla poetica della danzatrice e articolatesi in un percorso coerente attorno alla «parola e la danza attraverso la trasmissione di archivi di posture». Quella «dichiarazione di esistenza» politica, insita nella postura come cardine della pratica, ha trovato nel processo creativo momenti di studio come, ricorderemo, il laboratorio ESTI. Performance con ipovedenti e non vedenti – tenutosi durante la decima edizione del festival Testimonianze Ricerca Azioni di Teatro Akropolis – in cui la parola udita è veicolo di scrittura coreografica, concretizzata e resa tangibile nel gesto. Fase fondamentale e di abbrivio per questo lavoro di ricerca sulla «trasmissione/enazione» è stata la creazione di un «archivio di corpi» costituito da tutte le fotografie impresse nella memoria di coloro che sono stati chiamati a partecipare alla raccolta. Immagini appartenenti a una memoria collettiva ma ricordate, e per questo selezionate, dalla memoria individuale. Invitate a contribuire, le circa quaranta persone coinvolte hanno dunque dovuto compiere uno sforzo al contrario: dapprima trovare l’immagine impressa nel loro intimo ricordo e poi collegarla all’evento pubblico. Un “esercizio mnemonico ed emotivo”, potrebbe essere definito, che ha fornito alla coreografa ricercatrice più di 350 immagini dalle quali poi estrapolare materiale preliminare per “scrivere insieme” gesti collettivi.
La risorgenza dei festival
[...]
Paola Bianchi e Virgilio Sieni: asciugare un’immagine
Nell’incipit della Vita di Plotino, Porfirio di Tiro riferisce che il suo maestro Plotino si vergognava di essere in un corpo e rifiutava che la sua figura venisse ritratta dai pittori, nella paura che questo pallido simulacro perdurasse oltre l’esistenza biologica. L’immagine è dunque un’estensione della parte peggiore e detestabile di sé: qualcosa che non deve proprio apparire, o che – se già esiste – deve sparire per lasciar spazio alla vita dell’anima incorporea, libera dagli impacci della materia.
Anche il lavoro Enérgheia di Paola Bianchi e le Quattro lezioni sul corpo politico e la cura della distanza di Virgilio Sieni vanno nella stessa direzione di distruzione del simulacro. La loro idea di danza parte da un medesimo assunto e mira a un identico scopo. Da un lato, occorre partire da alcune immagini (una foto o un’effige digitale per Bianchi, un quadro di un pittore italiano a cavallo tra ‘400-‘600 per Sieni) e trasfigurarle nel movimento. Dall’altro lato, entrambi hanno l’ambizione di tradurre l’estetica in politica, ossia creare uno spazio pubblico dove nessuno ha più ragione di vergognarsi di essere un’anima dentro un corpo – o forse di dubitare che l’anima sia il corpo. Si deve infatti partire dalla memoria privata dell’artista, o di chi ha fissato l’immagine su un supporto digitale, e usare il movimento coreografico come un tramite per riappropriarsi dello spazio, del tempo, della corporeità che tutti attraversiamo/abbiamo, ma di cui pochi sono consapevoli.
C’è dunque un tentativo di attivare un processo mimetico che, però, va oltre la concezione classica della mimesi. Semplificando al massimo, quest’ultima prevede che l’immagine incarnata in danza sia una sorta di duplicato somigliante all’originale. Lo spettatore che guarda i danzatori segue la logica del “questo è quello”: riconosce che il movimento corrisponde a qualcosa, che l’atto rinvia a una forma. Ora, Bianchi e Sieni si spingono in là fino a sgretolare il significato, o il rapporto logico di somiglianza, per lasciare che si manifesti solo l’essenza del movimento con le sue linee, i suoi ritmi, le sue forze eversive. La forma è insomma asciugata, affinché emerga solo l’energia pura, che non rinvia ad altro ed è apprezzata di per sé stessa. L’esito non è in fondo molto diverso dalla mistica plotiniana dell’annullamento dell’immagine e del raggiungimento di una vita autentica, senza però la caduta infelice nell’orrore per la materia. “Incorporeo” diventa con la danza una parola che indica la purezza del movimento di un corpo, ossia un moto asciugato da finalità pratiche e logiche significanti che lo rendono pesante e non leggero, brutto invece che bello.
Questa conclusione della poetica e della politica di Bianchi/Sieni può essere inoltre il preannuncio di un nuovo inizio, o la premessa per uno scavo ancora più abissale. Si è asciugata l’immagine o la forma di un corpo in un movimento, ma anche il moto corporeo è asciugabile in qualcosa di ancora più semplice: ad esempio, nella danza degli atomi da cui i corpi sono costituiti. Da questi, si può poi passare a qualcosa di ancora più sottile, come i minimi dell’atomo, o i punti e i grani che fanno danzare il complesso dello spazio-tempo. Con un ulteriore scavo, si può infine passare all’essere, o ciò che è comune a tutti i movimenti danzanti o spaziali/temporali, e da questi al nulla. Ma se asciugo anche il nulla, che danza resta?
Teatri di Vetro 2019 - Composizioni
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Paola Bianchi e la condivisione di un vocabolario
Come pensiamo il nostro corpo in movimento? Attraverso immagini o parole? Siamo capaci di riattivare il ricordo di una postura avvalendoci solo della dimensione verbale? Su tutto questo Paola Bianchi sta lavorando da anni, indagando la possibilità del corpo di trasmettere un gesto o un movimento codificato a un altro corpo solo attraverso l’uso della parola descritta. La coreografa sta riempiendo così, esperienza dopo esperienza, un enorme archivio mnemonico (intorno a questo si articola il progetto Energheia, presentato a Teatro India durante il festival). Sugli stessi temi Paola Bianchi svolge anche laboratori rivolti a non professionisti di varie età. Alessandro Pontremoli, in un breve testo pubblicato nel catalogo del festival, mette in luce come la coreografa abbia sempre “rivendicato con forza il valore politico del corpo danzante”; e non stupisce dunque come le sue pratiche si rivolgano a ogni genere di utente (disabili fisici e mentali, persone affette da Parkinson, persone ipovedenti e non vedenti), sperimentando la possibilità di tutti i corpi di far proprie e di incarnare soggettivamente quelle partiture verbali.
A Ostia, Paola Bianchi ha lavorato con un gruppo ristretto ma fortemente intergenerazionale: adulti e bambini si sono trovati a condividere le stesse esperienze e gli stessi stimoli, trovando una qualità di movimento e di ascolto reciproco sorprendentemente unitario. Attraverso questa esperienza, si propone ai cittadini di Ostia un rapporto rinnovato con la disciplina danza: non un sapere inaccessibile, che pochi possono esercitare per delega del pubblico, ma un universo a cui si può avere accesso attraverso la condivisione di qualche elemento di grammatica, e la comunicazione in presenza. Accorciate le distanze, lo spettatore arriva a trovarsi sullo stesso piano dei danzatori; e così anche l’atto del guardare ne esce trasformato.
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Potrebbe sembrare un paradosso, ma nella stessa sera che Menoventi monta il suo “Incidente” arriva la travolgente danza di Paola Bianchi in un denso solo che toglie il respiro. “Energheia” , nel senso in cui Aristotele indicava la trasformazione, è uno spettacolo post catastrofe. Memoria in movimento del secolo breve che trasloca nel futuro trascinandosi le scorie del passato. E i casi insoluti, e che aprono mille interrogativi, come quello del grande poeta russo, sono lo specchio di un’epoca connessa strettamente ai nostri giorni. Miracolo dell’arte, a leggere in profondità si scoprirebbe una felice assonanza tra le liriche di Majakovskij e la poesia in movimento di Paola Bianchi una delle più ardimentose sperimentatrici della danza in Italia: entrambi sottolineano urgenza e fotografano i cambiamenti antropologici e sociali. Figura importante della ricerca ed essa stessa icona, una delle poche, di un’Avanguardia sempre più dispersa in mille rivoli, Paola Bianchi ha lavorato per più di un anno attorno a un progetto ambizioso, Elp, che ha avuto tre diversi step e momenti espressivi (tra cui una coreografia montata con persone non vedenti), ma di cui proprio “Energheia” rappresenta il cuore pulsante, ispirato da una singolare idea. Visionando una serie di immagini pubbliche fissatesi nella retina di una quarantina di persone la danzatrice le ha tradotte in segni coreografici. Sono fotografie che ciascuna persona interpellata dall’artista ha selezionato dalla camera oscura dei propri ricordi per trasformarli in evento pubblico. Momenti consegnati alla Storia che, per estrema sottrazione, si sono trasformati nelle lettere di un alfabeto danzato, utile a ricostruire sulla scena oltre settanta anni della nostra vita. Un canto politico e poetico per una umanità che muore. Il film scorre veloce. E’ un pulsare continuo di gestualità. Movimenti quasi meccanici di un corpo che si snoda come fosse una marionetta appena uscita dall’atelier di Montparnasse della grande Marie Vassilieff.
Sono personaggi inediti, frutto di un surrealismo etnografico, plasmati in diretta da Bianchi che piega il proprio corpo verso direzioni inattese. Figure composte con la velocità della luce in quadri teatrali dove si rintracciano i tratti di un’arte primitiva, sensori di una spiccata passione per le avanguardie storiche. Come per incanto lo spettatore si trova davanti a una sorta di miniaturizzazione della storia, di eventi entrati nel profondo delle coscienze e risvegliati di colpo anche da un solo cenno: il roteare del bacino, un dito che indica, una ardita torsione. C’è straordinaria mimèsi in quelle pose plastiche, i pugni levati al cielo suggeriscono rabbia e violenza, voglia di spiccare il volo correndo a perdifiato, mentre Fabrizio Modenese con impeccabile maestria in diretta arpeggia alla chitarra elettrica linee di fughe vestite efficacemente dalle luci disegnate da Paolo Pollo Rodighiero. Danza e musica vivono anche in questa creazione in simbiosi solidale dandosi il turno nell’evocare visioni. Sia piazzale Loreto, come l’11 settembre a New York, la piccola vietnamita in fuga dai bombardamenti e napalm. Canto dell’umanità confusa e dal futuro incerto, elogio della trasformazione e del cambiamento anche “Energheia”, stranamente come la poesia di Majakovskij, ha fretta di viaggiare nel tempo. Commuove aprendo interrogativi in un veloce alternarsi di cambi di scena e squarci nel cuore.
Sempre nell’ambito dello stesso progetto Elp (cioè Ethos, Logos e Pathos: modo di essere, parola e ascolto, forza emotiva) la sera successiva è stata presentato un altro work in progress, “Ekphrasis”, dieci giovanissimi danzatori in scena (Barbara Carulli, Camilla Soave, Chiara Andreoni, Elena Salierno, Elisa Quadrana, Francesca Bertolini, Lorenzo De Simone, Martina del Prete Paola Fontana e Sara Capanna, musiche live di Modenese e luci di Rodighiero. Coreografie e regia di Paola Bianchi fuori dal palcoscenico) in un intrico di movimenti tesi a replicare una parte di quell’archivio di gesti e figure che Bianchi ha consegnato loro da “Energheia”. Una sorta di versione in prosa quindi del lavoro precedente ma dotato di un proprio indiscutibile fascino del moltiplicarsi e intersecarsi dei piani così come delle visioni. I ragazzi che hanno lavorato duramente con la coreografa sono coordinati e abbastanza precisi, alle prese con un atto unico per niente semplice. Eppure, sarà la freschezza dell’età e la palpabile energia trasmessa dai loro corpi, “Ekphrasis” lievita e conquista in modo progressivo lasciando il ricordo di una danza ricca di emozioni.
Teatri di Vetro 13. Riflessioni su un festival che cambia forma
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ELP DI PAOLA BIANCHI
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Post-scriptum: Lo stimolo a occuparmi di questo problema in Aristotele è nato dal progetto ELP della coreografa e danzatrice Paola Bianchi, nello specifico dai lavori Enérgheia (dichiaratamente ispirato al concetto aristotelico di “attività”) e The Undanced Dance. In esperimenti performativi come questi, attualità e processo coincidono. La danza diventa creazione totale e non più imitazione della realtà, di un carattere, di un’emozione o di un’idea. Collocando l’atto coreografico di The Undanced Dance al buio e al riparo dalla vista dello spettatore, ad esempio, Bianchi fa sì che i movimenti dei danzatori stimolino la memoria senza referente e il pensiero nella sua purezza, senza il tramite della vista. Abbiamo dunque un movimento e un’azione che cercano di prosciugare il movimento o l’azione in loro stessi, o che cercano paradossalmente di approssimarsi per quanto è possibile alla quiete e al silenzio. La danza si avvicina così all’attività nell’immobilità di cui parlava Aristotele: una danza immobile in cui è sempre vero dire in ogni momento “sto danzando” e “ho danzato”, perché non c’è prodotto da realizzare in partenza attraverso il processo. Il fatto che lavori del genere arrivino a conclusioni che Aristotele non aveva mai difeso, pur partendo da concezioni aristoteliche, sta a dimostrare come le intuizioni dei testi antichi possano avere uno sviluppo imprevedibile nella ricerca artistica e nella storia del pensiero.
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Oscillazioni per esercitare lo sguardo: Teatri di Vetro 2019
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Ad aprire la prima serata Paola Bianchi con la sua – e nostra – The Undanced Dance, che propone «una coreografia senza corpo che cerca corpi in ascolto e in azione». Danzatrice e coreografa indipendente, Paola Bianchi raccoglie la sua profonda sensibilità e precisione nelle registrazioni fornite a ogni partecipante, convertendo un solo di una decina di minuti in una vera e propria narrazione coreografica. Costante, lenta e dettagliata, la sua voce diventa immagine danzata nella mente, visualizzazione coreografica di un corpo fluido nello spazio celebrale. Azioni che sfumano e si dissolvono nella compiutezza di ciascun gesto per riversarsi nell’altro, un’operazione che accumula residui di movimento, segni che scompaiono nel loro tracciarsi. Al pubblico viene lasciato il piacere di farsi portare, la libertà di mantenere il coinvolgimento alla visione mentale e la possibilità di abitarlo col proprio corpo. Esserci, presenti, sostanziali e residuali come un gesto o una parola. Che lo spazio sia interiore o esteriore, ne manifesta l’indissolubile sostanza del corpo e coinvolge un investimento personale attraverso gli occhi di un altro. Lo sguardo, spesso si dimentica, è ciò che raccoglie la prospettiva di ognuno, la direzione da cui si osserva, giudica e sente il mondo. È il corpo che condiziona lo sguardo, da lui si parte e si torna: privare una danza della visione ne può comportare la riattivazione, in cui l’energia attraversa la forma come le onde del mare. La danza segna i limiti di ogni corpo e, al contempo, l’irrinunciabile desiderio di tendere altrove, in quel tipo di partecipazione che permette di riconoscerlo.
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IO (NON) BALLO DA SOLA
Sanzia Milesi - 20 dicembre 2019 - vita.it
La performance ideata dalla coreografa Paola Bianchi, dove la parola agisce in scena sui corpi di ipovedenti e non vedenti, guidandone il movimento. Una nuova modalità di fruire e vivere il teatro. Che ha già debuttato prima Genova e poi Roma
Una pratica di trasmissione orale del movimento. Come far arrivare, ad una persona non vedente (ma anche a chi ascolta in radio), le indicazioni per agire un movimento, per ballare una danza, per rendersi parte collettiva di una coreografia? Se lo è chiesto Paola Bianchi, danzatrice e coreografa indipendente, torinese classe 1962, oramai romagnola d'adozione, che da tempo con i suoi lavori di ricerca ben insegna l'importanza del corpo in scena. Com'è già stato sin dai suoi esordi negli anni Ottanta e nel suo volume “Corpo politico. Distopia del gesto, utopia del movimento”, o solo per citarne un paio, con il progetto di danza verbale del file audio “NoBody” e la serie di radiodocumentari sull'opera teatrale del regista polacco Tadeusz Kantor trasmessi da Radio3 nel 2015.
“Esti” ha debuttato in prima assoluta al Teatro Akropolis di Genova in novembre, per poi passare al Teatro del Lido di Ostia per il festival Teatri di Vetro in metà dicembre, e chissà quanto altro viaggiare ancora. Sin dal suo nome, Esti, terza persona dell'indicativo del verbo essere in greco antico, è una dichiarazione di esistenza. La conclusione performativa di un laboratorio condotto da Paola Bianchi con un gruppo di danzatori non professionisti, quattro ragazze di 20/30 anni ipovedenti e non vedenti, coinvolte in questo debutto dall'Unione Italiana Ciechi e dall'Istituto David Chiossone di Genova. Un lavoro che indaga la trasmissione della danza attraverso la parola descrittiva, “escludendo il corpo del maestro come modello di riferimento da seguire e imitare” e diventando per loro “motore di ricerca interna al proprio corpo”.
Parla così di “immaginazione muscolare della coreografia” Paola Bianchi, che spiega com'è nato questo importante momento: «Già grazie al progetto Elp e al lavoro di immersione emotiva compiuta con lo spettacolo “Energheia” sugli archivi mnemonici di una quarantina di persone, ho voluto indagare la relazione tra danza e parola. Ho lavorato sullo spazio e sul ritmo e descritto in note vocali delle posture (“ho i piedi paralleli, il braccio destro in alto con il pugno chiuso...”), posizioni anche complesse, che poi ciascuno assumeva a seconda delle capacità del proprio corpo, ma anche di come le sentiva su di sé, secondo una propria incarnazione personale. Posture che, per altro, andavano prese come “appuntamenti”, da legare assieme in una composizione coreografica più armonica. Facendo questo con persone che non vedono come io mi stia muovendo, elimina la tipica frustrazione che esiste sempre nei confronti del corpo del maestro come modello da imitare, e quell'immagine la crei tu, nella tua testa. Questo mi ha permesso di indagare sino in fondo cosa succede nella danza a partire dalla parola. E mi ha portato a ripensare anche al mio linguaggio, e a cose banali, che banali non sono. Ad esempio, durante le prove sono sempre stata di fronte a loro sulla destra e da lì veniva la mia voce. Poi, senza pensarci, alle prove generali mi sono spostata con la consolle a sinistra ed è stato improvvisamente un disastro, perché, riferendo i loro corpi verso la mia voce, non riuscivano più a riconoscere gli spazi di riferimento e quindi a comporre la successione costruita dei movimenti. È stato necessario e utile anche per me provare a chiudere gli occhi e imparare a misurare con i piedi per orientarmi nello spazio. Utilizzare l'ecolocalizzazione con lo schiocco delle dita per far percepire la vicinanza/lontananza dal muro. Indicare con lo scotch a pavimento il punto centrale della scena. Perché se tu non vedi e io ti dico “stai al centro”, non hai coordinate visive spaziali ed è quindi necessario creane altre. É stata una traduzione. Un'altra ancora, rispetto a quelle che avevo sperimentato in passato. A Torino con un gruppo di malati di Parkinson, che concentrandosi su suono e musica per il controllo del movimento riuscivano in qualche modo a spegnere per un attimo la scossa di quel loro tremore. Oppure a Castiglioncello, in provincia di Livorno, con un gruppo misto di ragazzi di un liceo coreutico e disabili mentali, che in questo caso agivano invece per imitazione, dove alla fine dello spettacolo mi è stato chiesto dal pubblico: “ma sono tutti disabili?”. È stato il complimento più grande. È ciò che deve succedere: non accendere il riflettore sulla disabilità.»
A partire da questa sensibilità, tutta personale di Paola Bianchi, è stato così possibile creare uno spettacolo di danza, che è insieme un lavoro su di sé e sulle proprie potenzialità, normodotate o relativamente dotate, com'è poi per tutti. «Quando si sono presentate delle difficoltà – chiarisce così la coreografa, tornando con l'agevolezza che le è propria, dalla ricerca teorica di un percorso possibile alla sua pratica sul campo – magari negli esercizi di riscaldamento, quando qualcuno piegava la schiena in modo scorretto, essendo impossibile il “guarda bene”, allora ponevo le loro stesse mani sul loro corpo, per far sentire loro dove si muoveva l'articolazione e dove poggiava il movimento. “Il pubblico è come una grande mano che passa sul vostro corpo e capisce cosa avete esposto di quella forma” dicevo loro. Perché è un'altra abilità quella che devono dimostrare: il loro saper andar oltre, il loro vedere con le mani. Una di loro mi ha detto un giorno: “non cambierei niente, sono felice di essere come sono”. Ed è questo che deve passare. Non il commuoversi, non una pietà becera che nasce da qualcosa che in scena sottolinea l'handicap. Perché l'handicap non c'è una modalità per escluderlo, ma è possibile non dichiararlo. Così chiedevo loro: “se tocchi con il piede la linea di confine dello spazio, non avere uno scattino che lo renda evidente e prosegui sciolto, cambiando direzione senza spaventarti, e se per sbaglio sbatti con qualcuno, quello è un incontro, non uno scontro”. Abbiamo lavorato così, insieme, per eliminare questa cosa del “vi faccio vedere che non vedo”. Ma poi su tutto, ciò che è veramente importante, è l'accoglienza di ciò che viene.»
TEATRI DI VETRO 2019: LA PAROLA OLTRE IL GESTO
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Anche per Paola Bianchi, che pur lavora in direzione e con strumenti completamente diversi rispetto a Gribaudi, la parola ha qui un ruolo centrale. Il polittico composto dalle sue quattro presenze sul palco è una sorta di ossessiva ricorrenza, di inesausta variazione e di tempio eretto a uno sceltissimo numero di gesti, esplorati nelle loro composizioni geometriche, nelle loro possibilità di interpretazione, fraintendimento, comunicazione. Ma, soprattutto, transcodificati, trasmessi non tramite l’esempio e la pratica dell’imitazione, ma esclusivamente attraverso la descrizione verbale.
Questi pochi gesti ora passano per i quattro partecipanti al laboratorio (tre bambini dagli 11 ai 13 anni e una donna), che li fanno propri, li ampliano, li modificano, introiettandoli e poi restituendoli sporcati; ora sono diffusi – con e senza cuffia – per gli spettatori di “Undanced dance”, con la richiesta ai partecipanti di una prova d’esecuzione; fanno infine parte del nucleo centrale, rovente, di “Energheia”. Quest’ultimo denso e spinoso lavoro, a volte al limite dell’ermetismo, vibratile, ombroso (come un cavallo), accompagnato dalle chitarre di Fabrizio Modonese Palumbo, è di un’informalità a tratti spiazzante, persino violenta.
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“Testimonianze ricerca azioni”, una passione lunga un decennio: pensiero e metamorfosi della scena contemporanea
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Al nostro arrivo a Genova, percorrendo da Piazza Principe la multietnica via di Prè arriviamo in salita alla Casa Paganini, che fu dimora del violinista e compositore Niccolò, per una delle tre coproduzioni Pindoc del festival, ESTI. Performance con ipovedenti e non vedenti, esito del laboratorio condotto da Paola Bianchi, performer esperta di drammaturgia del corpo, ovvero di come la parola possa indicare la strada al movimento, anche in assenza della vista. La coreografia, intesa come scrittura del movimento nello spazio e nel tempo, ha una sua semiotica che l’avvicina al linguaggio verbale. Modificando la distribuzione dei corpi e della massa di ciascuno nell’etere, qui la parola fuori scena è “prescrittiva”, dialoga con lo spazio delimitato in superficie da una striscia di nastro adesivo che si percepisce al tatto sensibile delle performer. Ciò che accade è straordinario, e non perché straordinari siano i corpi che si mettono in gioco, ma perché straordinaria, precisa, rigorosa, è la cronologia in cui si manifestano le azioni, alcune di queste anche a canone, delle quattro performer. Straordinaria, ancora, la qualità del gesto, dell’accoglienza all’interno del campo magnetico della scena di altre forze centripete, di persone dal pubblico che, in virtù di un principio democratico di convivenza, sono invitate a chiudere gli occhi e ad abbandonarsi per incontrare l’altro, sentirlo prima attraverso il calore della prossimità, e poi attraverso l’epidermide.
Se la delicatezza del processo e della restituzione del laboratorio comunica un approccio di tipo sensitivo, empatico, di tutt’altro calibro il lavoro della stessa Paola Bianchi andato in scena in prima assoluta, Energheia, un lavoro di cui sconsiglieremmo la visione a un pubblico dall’udito sensibile, per i volumi molto alti delle musiche, composte ed eseguite dal vivo da Fabrizio Modonese Palumbo. Se in ESTI la delicatezza e la dolcezza contraddistinguevano il gesto delle performer, qui le linee sono dure, disarmoniche. Non manca l’approccio analitico-scientifico: il corpo magro viene come radiografato, mostra attraverso il movimento le sue più sottili possibilità di snodo articolare. Una massa informe che si visualizza come mucchio di ossa ripiegato su se stesso, elastico, che da terra realizza un effetto sottilissimo di rimbalzo, vibrando con il suono violento e ostinato del tappeto sonoro. Il progetto è ambizioso: «primo dispositivo del progetto ELP, Energheia nasce da un’immersione emotiva negli archivi retinico-mnemonici di una quarantina di persone alle quali ho posto una domanda: quali sono le immagini pubbliche che si sono impresse nella tua retina e che anche dopo molto tempo continuano a essere vive nella tua memoria visiva? Immersi come siamo nel calderone delle immagini, caratteristica primaria di questo secolo, quei frammenti di accadimenti fermati su supporto analogico o digitale sono a tutti gli effetti pezzi di storia, un atlante mnemonico personale e condiviso». Il risultato è una performance per palati raffinati.
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Come la danzatrice e coreografa racconta nel denso volume che accompagna il Festival (tanto ci sarebbe da dire sull’instancabile attività editoriale di Teatro Akropolis, oltremodo meritoria in questi tempi bui), l’assolo è stato costruito a partire da qualche centinaio di immagini, «pubbliche e non personali», reperite interpellando una quarantina di persone «diverse per età, sesso e professione» e poi incarnate e composte attraverso un rigoroso e visionario processo di embodiment da cui è scaturita, in dialogo con una partitura sonora live di pulsazioni elettriche e distorte sonorità chitarristiche, una coreografia di tensioni e linee spezzate, intrecci e sovrapposizioni nella quale la dimensione muscolare, finanche ginnica, è parsa funzionale ad incarnare, piuttosto che ad imitare, le immagini-stimolo ricevute.
Vien da pensare a Egon Schiele, immediatamente, ma anche e soprattutto alla inderogabile relazione fra il corpo e lo spazio che lo costringe e al contempo lo fa esistere così come Gilles Deleuze lo legge nelle Figure di Francis Bacon.
In un serrato, potentissimo susseguirsi di spasmi e tremori, il corpo dolente e inquieto dell’interprete fonda la propria vibratile presenza sulla possibilità di farsi trasparente, o meglio di divenire veicolo di immagini, secondo una concezione antica di poeta come connettore, ancor prima che creatore.
Tanto altro si potrebbe dire su questo archivio di carne e tendini, di muscoli e ossa, dal quale affiorano in controluce istanze e tensioni che hanno fornito spinta propulsiva alle ricerche di Avanguardie, Neoavanguardie e, come qualcuno le definisce, Terze Avanguardie, nell’ultimo secolo o giù di lì.
Ma, al di là dei rimandi soggettivi o delle opinabili connessioni con la storia dell’arte, ciò che emerge con forza è la “lente scientifica” attraverso cui questa sapiente danzautrice ha trasdotto un materiale che se non trattato con rigore disciplinare sarebbe scaduto in un inutilmente generico pourparler,ma al contrario fondando, per dirla parafrasando ancora de Certeau, il luogo da cui pronunciare il proprio discorso coreutico: «Il suo valore proviene unicamente dal fatto che si produce proprio nel punto dove parla il Locutore […] la sola autorizzazione gli viene dall’essere il luogo di questa enunciazione».
Questo luogo, ça va sans dire, è il corpo nella sua relazione con lo spazio.
DIARIO TESTIMONIANZE RICERCA AZIONI - 4
Maria Dolores Pesce - 15 novembre 2019 - dramma.it
Energheia, termine di coniazione aristotelica, è una di quelle parole che mantengono nella loro sonorità primitiva ed originale ciò che hanno perso nella traduzione contemporanea, purtroppo tendenzialmente banalizzante come direbbe Benjamin. È l'atto della trasformazione e dunque, qui, non tanto l'energia che alimenta lo spettacolo quanto lo spettacolo stesso. Uno spettacolo che è il risultato di un indagine mnemonica, di una immersione nei segni che la realtà, ovvero quella che immaginiamo tale, produce nell'inconscio e che questo conserva, elabora e restituisce non tanto reattivamente quanto creativamente, un segno mutante che diventa simbolo/particella del nostro singolare percorso esistenziale. Come nel Georg Walter Groddeck amato e citato da Edoardo Sanguineti, per il quale “tutto in noi, anche quello che appare più accidentale, è determinato da pulsioni profonde”. La danzatrice, che ha raccolto e selezionato quaranta di queste immagini, se ne fa fisicamente carico, discernendo e metamorfizzando, per cui la danza diventa quasi un dialogo tra ciò che è presente qui e ora e ciò che all'apparenza è perduto ma ancora suggerisce e suggestiona. Un movimento che implode, uno sguardo affascinato dal profondo che, come un codice segreto, ci definisce e circoscrive, tutto all'interno di una atmosfera sonora e musicale post-moderna, direi, e quasi dissociata. Emerge così un alfabeto che potremmo definire di spasticità emotiva, un alfabeto che sembra caratterizzare una modernità incapace di articolare serenamente la relazione con l'altro e che dalle macerie di quella relazione appare travolta. Quasi uno sforzo di elaborare i propri confini emotivi che si abbatte sulla chiusura degli altrui confini. Di e con Paola Bianchi, molto brava. Musiche di Fabrizio M. Palumbo, luci di Paolo P. Rodighiero. Tutor Roberta Nicolai e Raimondo Guarino. Residenze e sostegno: Lavanderia a Vapore, L'arboreto-Teatro Dimora, Teatro G.Villa, Armunia. Una produzione PinDoc, coprodotta da Agar, Teatri di Vetro, Teatro Akropolis, con il contributo di MIBAC e Regione Sicilia.
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[…] E rigore, energia e sapienza teatrale si rintracciano anche in “Verbo presente” potente atto coreografico unico di Paola Bianchi, artista danzatrice e coreografa indipendente, tra i migliori talenti della danza contemporanea italiana. Autrice di un lavoro che ha pochi uguali, sembra avere in comune con Akropolis una affine concezione sacrale del rappresentare, fatta di generosità e precisione scenica quanto una rutilante capacità di improvvisare su un canovaccio nobile d’attore: superando la quarta parete, esce dal guscio protettivo di schermi e veli che mettono fuori fuoco una straripante energia. Ad attivare il corpo di Paola Bianchi, che attraversa come una scheggia il palcoscenico è la musica, composta ed eseguita dal vivo da Fabrizio Modenese Palumbo, musicista di frizzante creatività, al violino elettrificato e ai live electronics (il tutto coadiuvato scenograficamente dalle preziose architetture del light designer Paolo Pollo Rodighiero). Quello che va in scena è un contatto forte e rabbioso, addolorato ed erotico tra suono e corpo che danza senza risparmio: prende alla gola e costringe alla visione. Impossibile staccare o vagare con lo sguardo, che, al contrario, resta incollato alle evoluzioni “au bout du souffle” di questa formidabile performer.
E’ danza, è teatro, è movimento puro. Un corpo che vola ribelle sulle brutture del mondo, ridefinendo spazi ed emozioni mentre la luce progressivamente disegna inediti territori da esplorare sul corpo e nel buio. E ci sono attimi in cui Paola Bianchi mostra una rara abilità nel mettere in fila piccole e progressive tensioni amplificandole in gestualità uniche, suggerendo una danza del profondo che evoca conflitti tumultuosi e primordiali quanto imprevedibili e imprevisti distacchi zen. […]
CRISALIDE: L’ESPERIENZA SELVAGGIA
Quando un vulcano ha le doglie o è scosso da un’attività sismica, non si sa bene che cosa potrà liberare. Potrebbe uscirne dell’innocuo fumo, eruttare una colata lavica, fiottare della cenere distruttrice, o aprirsi una crepa nella terra che rivela una miniera di oro e argento. Nei versi dell’Ars poetica, Orazio usa questa similitudine del vulcano che ha le doglie per riferirsi, in forma ironica, ai risultati modesti di un poeta che promette qualcosa di grande. Egli proclama un’opera magnifica, ma partorisce un topolino: e tutti ridono. Abbandonando l’ironia oraziana, potremmo portare all’estremo l’analogia tra il vulcano e il poeta, supponendo che il secondo è ambiguo come il primo. Quando i poeti hanno le doglie, possono liberare versi e pensieri vacui come il fumo, preziosi come l’oro e l’argento, o devastanti come la lava e la cenere ardente.
Se il teatro è una forma di poesia, ci si potrebbe allora forse legittimamente domandare quanto segue. Anche il teatro è come una montagna che ha le doglie? E se sì, che cosa potrebbe liberare? Qualcosa di grande e arricchente e prezioso, o di piccolo e distruttore e miserabile?
Mi pare che questa domanda costituisca uno dei temi centrali che ispira sotterraneamente quattro degli spettacoli della 25.ima edizione del festival Crisalide, dal titolo L’esperienza selvaggia, andati in scena a Forlì il 14-15 settembre 2018. Mi riferisco a Macbetto, o la chimica della materia di Teatro delle Albe / Masque Teatro / Menoventi, a Luce di Masque Teatro, a Opsìa di Paola Bianchi, a Studio sul mito di Demetra di Teatro Akropolis. Parlando in termini molto generali, infatti, ciascuno di questi spettacoli descrive una sorta di movimento “dal dentro al fuori”. Essi presentano il teatro come un processo di liberazione di un qualcosa che è nascosto nella nostra interiorità, o nel nostro profondo. Il problema è capire che cosa sia questo “qualcosa”. Lo scopo di questo breve intervento è esaminare in estrema sintesi questo problema e parlare al contempo delle quattro proposte artistiche viste/ascoltate a Crisalide.
Prima di procedere, occorre tuttavia fare una distinzione dialettica e metodologica. Il concetto di “liberazione” o del moto dal dentro al fuori non è univoco, perché raccoglie in sé un insieme di fenomeni tra loro molto diversi. Senza entrare in troppi dettagli, perché andremmo altrimenti troppo lontano e complicheremmo inutilmente la questione, noto in questa sede solo che un processo liberatorio può essere o di tipo “grezzo”, o di tipo “elaborato”. Il primo indica un qualunque moto di rilascio di qualcosa in forma non trasformata, né rielaborata. Prendiamo ad esempio una spugna da doccia. Questo oggetto assorbe l’acqua, lo sporco che si trovava sul nostro corpo e il detergente usato per lavarsi. Quando la spugna viene strizzata, essa libera esclusivamente queste tre sostanze.
Non si dà, in altri termini, il rilascio di un loro aggregato o di un loro distillato, quindi un’entità che prima non c’era. Di contro, un processo di tipo “elaborato” libera un qualcosa di composito o di più asciutto dagli oggetti e dalle esperienze da cui si era partiti. Possiamo riportare entro questa classe la gran parte dei nostri accadimenti fisiologici e mentali. Il cibo viene assunto dal nostro organismo e raccolto in parte in nutrimento, in parte in escremento, dunque in due aggregati più piccoli e diversi dall’alimento ingerito. O ancora, le informazioni raccolte tramite libri o altri supporti vengono trasformate in nessi, idee, pensieri che le fonti di partenza o non contenevano, o non esplicitavano. Un processo di tipo “elaborato” libera allora qualcosa di diverso e non di identico rispetto alle cose da cui si era partiti.
Ora, credo si possa escludere che il teatro attui un processo di liberazione di tipo grezzo. Un poeta o artista performativo trasforma ed elabora sempre la realtà da cui parte, persino nei casi in si colloca in una prospettiva iper-realistica, vale a dire in cui ambisce a dare un’esatta replica del reale e ad annullare il rapporto originale/copia – tema peraltro accennato nella breve ma limpida presentazione di Simone Azzoni del suo libro Lo sguardo della gallina, svoltosi sempre nella 25.ima edizione di Crisalide. Se anche un attore dovesse davvero riuscire nell’intento di assumere le sembianze e i caratteri e altre qualità della persona o cosa o evento che imita, sarebbe comunque ancora possibile distinguere che questa è la “realtà reale” e questa la “realtà imitata”, che sono identiche in tutto meno che, appunto, nella loro essenza più intima. L’una è infatti naturale, l’altra artificiale. Nemmeno un dio sarebbe capace di compiere questo gesto iper-realista, ad esempio creando un “doppio” esattamente identico e sovrapposto alla cosa o alla persona o all’evento in questione, nel tempo come nello spazio. Persino in questo caso paradossale potremmo ancora distinguere con l’immaginazione o un atto di concettualizzazione l’originale e il doppione che è stato sovrapposto. (Se mai ce ne fosse bisogno, ciò costituisce incidentalmente una micro-argomentazione a sfavore dell’ipotesi – prossima all’indifendibile – dell’onnipotenza divina).
Questo discorso risulta ancora più plausibile se torniamo al problema del moto che va “dal dentro al fuori” da cui siamo partiti. Un poeta o artista performativo non libera sulla scena le sue visioni interiori così come sono state assorbite dall’esterno. Prendiamo a titolo di esempio il racconto della guerra delle Due Rose nell’Enrico VI o nel Riccardo III di Shakespeare. Queste drammaturgie non raccontano l’evento storico reale, pur rispettando spesso fedelmente la storia dell’Inghilterra, bensì riflettono una visione e un’interpretazione degli eventi filtrata dalla sensibilità o dall’intelletto dell’artista. Shakespeare non è come una spugna: non libera da sé solo quello che ha assorbito dall’esterno. Quel che questo poeta restituisce tramite il teatro ha poco a che fare con la storia e i suoi troppo umani avvenimenti.
Assodato allora, in forma certo troppo sintetica e inadeguata, che il teatro non attui un processo di liberazione di tipo “grezzo” e che per esclusione ne compi uno di genere “elaborato”, resta da capire che cosa esso liberi dalla nostra interiorità. Qui non è purtroppo possibile avere una prospettiva univoca e chiara. Gli artisti di teatro sembrano delineare in modi molto diversi, o addirittura contraddittori, la qualità del moto interiore che va dal dentro al fuori. Ciò emerge appunto dal lavoro delle compagnie dei quattro spettacoli di Crisalide che ora mi appresto a sintetizzare.
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Anche il lavoro Opsìa di Paola Bianchi è avvicinabile a Luce di Masque Teatro, se è sensato definire entrambe come una “poetica del corpo muto”.
L’artista parte da una tela di Andrea Chiesi e dal libro animanimale di Ivan Fantini per tradurre l’una come le altre in dei movimenti coreografici, o più materialisticamente in fremiti e coreografie della pelle. In questo senso, se immagini e parole sono definibili come traduzioni dell’interiorità di chi le ha dipinte / scritte, ci troviamo con Opsìa di fronte alla traduzione di una traduzione. Il corpo di Paola Bianchi libera attraverso il corpo quella che è l’essenza della tela di Chiesi e dei ragionamenti di Fantini. Se si volesse concepire anche il saggio che sto scrivendo come un quarto livello di traduzione, potremmo per inciso definire la critica come la “traduzione di una traduzione di una traduzione”, che cerca di cogliere il nocciolo della questione, più spesso senza riuscirci. Il fatto che in questo processo di traduzione dall’immagine e dalla parola al corpo si riesca a cogliere poco dell’originale da cui si era partiti va visto qui come un pregio, più che come un difetto. Il teatro è del resto un’arte della suggestione e della fascinazione misteriosa, in cui non è necessario comprendere tutto per accedere alla bellezza. Inoltre, sono davvero pochi – forse nessuno – i fatti della vita che si capiscono per davvero. L’arte bella di cui Opsìa è un esempio non fa che intensificare il mistero incomprensibile dell’esistenza.
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Basta uno sguardo superficiale alle prospettive così sintetizzate per notare che nessuna di loro è perfettamente armonizzabile con le altre. Non si può pensare, ad esempio, che il Macbetto e la sua idea che la poesia del teatro porti fuori alla vista il sangue o la merda dell’esistenza sia compatibile con la prospettiva del corpo generatore di elettricità di Luce e quello portatore di bellezza di Opsìa, o con il riso redentore dello Studio sul mito di Demetra di Akropolis. Né è possibile far combaciare alla perfezione i lavori di Paola Bianchi e di Masque Teatro, anche ammettendo che entrambi condividano la poetica dell’espressività del corpo muto. Vi è infatti almeno un’importante differenza tra le due creazioni. Paola Bianchi pensa che il solo corpo muto basti a dare un’espressione artistica alla nostra interiorità, a tradurre parole e immagini in moti della pelle, mentre Luce di Masque ritiene che questi richieda l’ausilio della macchina e l’intercettazione dei più sottili movimenti elettromagnetici della materia. Infinite altre differenze potrebbero poi essere rilevate, e questo ci mostra quanto ciascun lavoro artistico abita, per così dire, un suo mondo privato e irrelato agli altri.
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SCOREFORFIVE
OGNI SINGOLA DANZA E’ AUTENTICA E POTENTE, NEL MOMENTO IN CUI COLPISCE L’EMOZIONE DI CHI LA ACCOGLIE
In
occasione della settimana contro la violenza sulle donne, sono state
organizzate molte iniziative a Monsummano Terme, per riflettere e
confrontarsi. Tra queste, il 25 novembre, Giornata Mondiale contro la
violenza sulle donne, presso il teatro Y. Montad alle ore 21 si svolgerà
l’esibizione e coreografia di Paola Bianchi, danzatrice e performer
torinese, ad oggi tra le coreografe e danzatrici più interessanti del
teatro.
Di seguito la nostra intervista…
Iniziamo parlando dell’evento SCOREFORFIVE: di cosa si tratta e come è nata quest’idea?
SCOREFORFIVE è
una partitura per cinque danzatrici, cinque corpi che si incarnano in
uno solo. L’intenzione era quella di creare una coreografia per e con
cinque danzatrici, ma l’impossibilità di affrontare economicamente una
produzione con molte persone sulla scena, mi ha portato a creare una
coreografia per cinque interpreti riducendo l’organico alla mia sola
presenza. Il lavoro si pone da un lato come una denuncia delle
difficoltà legate alla situazione di indigenza in cui versa il mondo
della danza, del teatro e della cultura in generale; dall’altro, e più
propriamente, riguarda l’isolamento dell’individuo all’interno della
collettività, o meglio di una collettività mancante.
La
coreografia nasce dall’indagine intorno a cinque figure di donne della
letteratura contemporanea che non sempre si collocano come portanti dei
testi che le contengono (“La vita accanto” di Maria Pia Veladiano, “La
compagnia del corpo” di Giorgio Falco, “Volevo essere una farfalla” di
Michela Marzano, “Sangue del suo sangue” di Gaja Cenciarelli, “Anatomia
della ragazza zoo” di Tenera Valse). Lo studio parte quindi dalle
caratteristiche, a volte appena accennate a volte ben delineate, di
cinque figure di donne per svilupparsi in un rapporto remoto tra esse.
Il lavoro spaziale diventa in SCOREFORFIVE di
fondamentale importanza così come la differenziazione delle figure.
Ogni figura passa dal ruolo di soggetto a quello di oggetto della
memoria della figura che la segue e la precede e, ovviamente, dello
spettatore. Si richiede quindi un grande sforzo anche allo spettatore
che, se vorrà avere un’idea della totalità del lavoro, dovrà ricostruire
nella propria personale visione l’interezza dello spettacolo. Si
stabilisce quindi un patto tra scena e spettatore, ponendo estrema
fiducia nei confronti di quest’ultimo. Percezione senza esperienza,
collettività individuale. Un paradosso di ossimori. Una sfida
interpretativa che mi costringe a focalizzare il nucleo dell’azione
presente in un’azione asincrona.
SCOREFORFIVE è
costruito sulla sola ascissa dello spazio; il tempo – mancando la
sincronicità delle cinque azioni – non può essere un fattore
determinante. La coreografia si dipana quindi come una linea, in
orizzontale, una planimetria. Non c’è un prima o un dopo; l’ordine delle
azioni è legato esclusivamente alla connessione spaziale tra una figura
e l’altra.
Qualche
curiosità sul suo percorso: decida lei cosa vuole raccontare, quali
sono stati i momenti/lavori più significativi… vorrei sapere com’è nata
la sua passione per la danza e se da quando ha iniziato è cambiato
qualcosa per lei, in positivo o in negativo?
Più
che di passione parlerei di urgenza, un’urgenza che con il passare
degli anni è diventata sempre più pressante. Con la goffaggine infantile
tentavo le coreografie di Raffaella Carrà nel salotto di casa, davanti
al televisore in bianco e nero, il sabato sera; avrei voluto essere lei,
diventare come lei. Poi la mia strada è stata un’altra, ma non ho più
potuto smettere. Nel 2014 ho fermato su carta il mio percorso con “Corpo
politico – distopia del gesto, utopia del movimento”, volume pubblicato
da Editoria & Spettacolo. Non sono mai entrata fino in fondo nel
sistema della danza italiana e mi sono sempre volutamente tenuta ai
margini con brevi incursioni. L’ho fatto per molti motivi, non ultimo
perché è un sistema che fatico a riconoscere e che punta il riflettore
con grande intensità per un breve periodo per poi lasciare al buio. È
questa una modalità che uccide la danza e ogni tipo di arte, un sistema
che negli ultimi anni si è particolarmente acuito. Questo è però un
discorso che riguarda la politica culturale del nostro paese e per
rispondere seriamente ci vorrebbero molto tempo e fiumi di parole.
Tornando
invece al mio percorso personale, negli anni c’è stato un cambiamento
importante nel mio stare sulla scena e nel mio modo di vivere il
movimento. Esistono infatti due aspetti della coreografia nel mio
lavoro, che potrei definire come danza esterna e danza interna.
La prima riguarda il movimento nello spazio, le linee disegnate dal
corpo in movimento, la forma del corpo in contatto e in relazione con lo
spazio; la danza esterna necessita distanza nella visione, per dare la
possibilità all’occhio di comprenderne (nel senso di accogliere,
lasciare agire, prendere con lo
sguardo) la totalità e poterla mettere in relazione con lo spazio in
cui agisce. La seconda è esclusivamente interna al corpo stesso, è fatta
di muscoli, di tensioni interne, di vibrazioni muscolari e nervose, di
vene, la forma del corpo in contatto e relazione con il proprio confine,
la pelle che, oltre a svelare la forma, è medium percettivo; la danza
interna necessita di vicinanza, l’occhio deve seguire il percorso della
pelle, deve poter cogliere il dettaglio, entrare dentro la vibrazione
per comprenderne il
disegno. Negli ultimi anni la mia attenzione si è spostata sempre più
verso l’interno senza però dimenticare l’esterno. I movimenti, mai
gratuiti o puramente estetici, hanno trovato la radice, il nucleo di
innesco all’interno del corpo, il motore di ogni movimento parte dal
centro e mai dall’esterno. Sono movimenti coreografici “vissuti dal
corpo” e mai “abitati dal corpo”. La necessità di una vicinanza con lo
sguardo mi ha portata a creare in questi ultimi anni due performance
nate per essere presentate in luoghi piccoli, raccolti (appartamenti,
studi di professionisti, associazioni culturali, circoli, sale di musei,
piccoli teatri con gli spettatori sul palco), due performance che
esplorano la fragile linea di divisione tra azione e visione, e
sperimentano la nudità dell’azione stessa, la sua veridicità priva di
maschere di protezione. Una vicinanza che ogni volta crea relazioni
importanti tra chi agisce e chi guarda e che elimina quell’aura di
“intoccabile” propria degli spettacoli da palco. Originati da due
romanzi di Ivan Fantini (“educarsi all’abbandono” e “animanimale _
apologia di un genere umano”) Prove di abbandono – che in un anno e mezzo è stato presentato 42 volte – e d’animanimale –
che ha debuttato il 31 ottobre di quest’anno al festival teatri di
Vetro e che stiamo replicando – sono stati creati insieme a Ivan Fantini
e comprendono la sua lettura e la mia azione coreografata.
Durante
questi anni ho collaborato con molti musicisti, tra i quali vorrei
citarne tre. In primis Ezio Bosso che nel 1994 compose ed eseguì dal
vivo le musiche per contrabbasso solo per Flatus, un canto da,
spettacolo che ci permise di farci conoscere dalla scena contemporanea e
fu presentato in molte città italiane e all’estero. Le musiche, nate
contemporaneamente alle coreografie, contribuirono a creare una forte
sintonia tra gli interpreti – due danzatrici, un musicista e un light
designer; come in un quartetto da camera, i momenti solistici si
dividevano negli esecutori per incastrarsi tra loro, creando così
un’unica linea melodica ed esaltando la pura armonia.
E poi c’è la collaborazione decennale con Fabio Barovero che dal 2005, anno in cui nacque Corpus Hominis, al 2016 con Prove di abbandono ha
creato le musiche e i suoni dei miei lavori con un’attenzione e una
sensibilità estreme. Infine Fabrizio Modonese Palumbo con il quale
collaboro da un paio di anni e la cui musica (“Verbo presente” e
“d’animanimale”) crea “stazioni di suoni, arcate di ponte che sorreggono
e racchiudono lo spazio della danza con la solidità di una cattedrale
romanica” per dirlo con le parole di Enrico Pastore.
Ma
non posso non citare un’altra collaborazione fondamentale, quella con
Barbara Klein e il Kosmostheater di Vienna iniziata nel 2007. Da allora
abbiamo creato quattro spettacoli con attori/danzatori, una sorta di
coregia in cui lei si occupa della parola, io del corpo.
Qual
è il tema della coreografia? Come lo spiegherebbe? Le danzatrici sono 5
donne estranee tra di loro ed ognuna è una vittima… come è riuscita a
rendere questa triste situazione attraverso dei passi di danza?
Il tema di SCOREFORFIVE non
è la lotta contro la violenza sulle donne e la mia intenzione non è mai
stata quella di lavorare specificatamente su un tema così complesso e
delicato. Ho lavorato su cinque figure di donne tratte da cinque romanzi
contemporanei, donne che, per il solo fatto di essere tali, subiscono
violenza. Vittime di violenza familiare, vittime dei canoni di bellezza
imposti, vittime di insoddisfazione e di noia, vittime del degrado
urbano e sociale, vittime consapevoli e inconsapevoli, vittime di
piccole violenze quotidiane che le trasformano, che le costringono, che
deformano il loro corpo. La violenza non è solo quella fisica ma è anche
quella che ci impone di essere sempre belle, giovani e in forma, di non
trascurare gli affetti, di essere indipendenti ma docili, di essere
intelligenti ma non troppo, di essere madri, di essere tante cose
insieme senza la reale possibilità di essere ciò che vogliamo. Questa è
la violenza subdola che subiamo quotidianamente e che ci costringe a una
lotta senza tregua. Portare le contraddizioni, le difficoltà nel corpo è
il mio mezzo ed è per mezzo delle tensioni che attraversano il mio
corpo che “parlo”. Quello corporeo è il primo linguaggio che gli esseri
umani imparano. I bambini comunicano con il movimento prima che con la
parola eppure crescendo perdiamo questo rapporto diretto con il
linguaggio corporeo per privilegiare il linguaggio verbale. Il mio modo
di lavorare non prevede una narrazione dicibile verbalmente, ma una
drammaturgia precisa, dove per drammaturgia intendo il senso di ciò che
espongo sulla scena, le fasi di sviluppo e di intenzione che andranno a
generare la coreografia, che innescano la ricerca coreografica. Non si
tratta quindi di astrazione ma di un lavoro concreto sul senso di ciò
che avviene sulla scena. Il lavoro sulle variazioni di tensione, sistole
e diastole, sull’uso dello spazio e sul suono generano una (re)azione
corporea in chi siede in platea. Questa azione del corpo in chi guarda
(variazione di tensione muscolare, accelerazione del battito cardiaco,
irrequietezza motoria) è ciò che un’azione coreografica dovrebbe
generare. La cosa importante è che queste reazioni del corpo di chi
guarda vadano nella stessa direzione delle intenzioni di chi agisce
sulla scena.
Qual
è il suo intento con questo progetto? Pensa che la danza sia più capace
ed efficace di altre forme d’arte nell’esprimere messaggi significativi
come questo? Se si, perché?
Non
ho messaggi da lanciare. Il mio intento è quello di porre domande, mai
di consegnare risposte. Non credo che la danza sia più efficace di altre
forme d’arte. Credo che ogni singola danza e ogni singolo atto
artistico siano estremamente efficaci nella misura in cui sono autentici
e potenti, nel momento in cui colpiscono l’emozione di chi li accoglie.
S.O.N.