Paola Bianchi appartiene a una generazione di autori della danza contemporanea che sta fra i cosiddetti “pionieri” degli anni Ottanta e gli esponenti palingenetici dei Novanta. Forse per questo motivo, fin dagli esordi, convivono, nella sua corporeità e nella sua ricerca, in modo artisticamente rilevante l’assenza della rinuncia al movimento e l’iconoclastia propria di fine Millennio.
Coinvoltasi con ogni medium che le offriva il panorama dell’arte contemporanea, non si è mai lasciata intrappolare dalle spire delle mode e delle retoriche, rivendicando sempre con forza il valore politico del corpo danzante.
Dopo l’esplorazione delle contraddizioni muscolari, che mettevano in forma il rapporto fra desiderio di muoversi e paralisi imposta dal potere, Paola Bianchi ha fatto dell’impedimento la sua cifra estetica, culminata anche in immagini concrete di gabbie più o meno simboliche o di freddi tavoli anatomici, dove interrogare la positiva, benché a volte dolorosa, energia della vita.
Lasciata per qualche anno la ribalta dei teatri e delle kermesse della danza, ritorna in questi ultimi tempi con una progettualità positiva, che fa dell’incontro con l’altro il nutrimento di una energia artistica necessaria. Districandosi fra formati scenici modulari che estendono la possibilità di rendere la performance un’esperienza, prima ancora che un prodotto da consumare, Paola Bianchi oggi danza con un corpo trasparente di potente qualità, portatore di una presenza luminosa perché derivata da una lucida coscienza percettiva, in grado di tradurre sulla scena i tratti pertinenti di una nuova estetica cognitiva e - per usare un ossimoro tensivo - di una emozione razionale.
Alessandro Pontremoli